“In Messico con Frida Kahlo” di Paola Zoppi, un estratto

“L’autoritratto come geografia” è il sottotitolo di “In Messico con Frida Kahlo” (150 pagine, 16 euro) di Paola Zoppi, firma di LuciaLibri, in libreria da domani per la collana “Passaggi di dogana” di Giulio Perrone editore. Pagine in cui si immaginano una cartografia essenziale dei luoghi dell’artista messicana, ma anche una mappa astrale e la storia delle parti del suo corpo che, una volta fratturate, sono divenute genesi e spazio della sua arte. Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore vi proponiamo l’anticipazione delle prime pagine

Un Giuda di cartapesta

In una fotografia scattata da Guillermo Zamora nel 1950, le pareti della Casa Azul paiono porose, corrose dal tempo. Lo scatto non transige: il chiaro e lo scuro stabiliscono indomiti il valore degli spazi, come lo sguardo di lei, percepibile appena e che trasuda tenerezza. Affonda senza presa negli occhi di lui, semichiusi per effetto di un sorriso bonario che compare tra le sue labbra. Il braccio sinistro la cinge per la vita, accolta nel suo cerchio per mezzo di una visione che li porta lontano. Sopraggiungono minuscoli, vicini ai numerosi idoli precortesiani sparsi ovunque nel giardino: sulla balaustra, per terra, tra le piante, finendo per assumere anche loro l’aspetto intoccabile che appartiene alle divinità. Infine, in questo giardino un disordine diffuso li circonda, laddove chiunque vedrebbe solo una natura incolta, la donna e l’uomo intravedono la capacità del mondo di generare vita.

Per conoscere Frida Kahlo sono tutti concordi nel dire che nessun percorso in Città del Messico avrebbe senso se non partisse dalla Casa Azul, all’angolo tra Calle Londres e Calle Ignacio Allende. In primo luogo, perché è in questa abitazione, come all’interno di un cerchio o di una O, lettera cara all’artista messicana, che inizia e finisce la vita di Frida Kahlo; in secondo luogo, perché la casa fu il soggetto-contenitore che Frida osservò per tutta la vita. Cosparse le sue radici di “tierra negra”, quella che distingue il terreno di questa casa e più estesamente del Messico, per nutrire in sé le ragioni di un eterno ritorno.

Nel quartiere Coyoacán, a sud di Città del Messico, Calle Londres si apre al visitatore come un viale ampio, silenzioso, costeggiato da case basse: edifici colorati, motorini, auto parcheggiate e semafori uguali a se stessi che intersecano altri viali periferici nei quali il traffico sembra scorrere lento. Un portone verde, socchiuso, regge la scritta Museo Frida Kahlo e lungo il muro, quattro alte finestre si alternano a distanze diseguali. Il cielo a volte appare minaccioso: le nuvole transitano velocemente portando con sé un temporale estivo, nell’aria carica di pioggia quel blu, che potrebbe essere definito “azul añil”, diventa accecante, intenso, con riflessi che virano al rosso ardente, lo stesso che segna i contorni delle finestre, che delinea la struttura. Svoltato l’angolo, Calle Ignacio Allende appare come un viale ancora più stretto. Mi incuriosisce un altro portone, sempre di color verde, sul quale appaiono, scolorite, la bandiera messicana a sinistra e quella argentina a destra, qui gli alberi hanno chiome rigogliose la cui ombra segue edifici che non ambiscono a salire in verticale. Al fondo della via, il silenzio è interrotto dalle grida del mercato di Coyoacán, una mescola di colori, bancarelle e marciapiedi consumati.

La Casa Azul non è sempre stata di questo colore e nemmeno di queste dimensioni. Fu costruita nel 1904 dal padre di Frida, Guillermo Kahlo. La struttura originaria è quella che si trova all’angolo tra le due strade ed era di colore bianco, quando la coppia Kahlo-Rivera vi si stabilì, la facciata venne dipinta di blu e nel corso degli anni, la struttura fu ingrandita. Frida probabilmente scelse “azul añil”, o indaco, una variante intensa di blu che inizialmente veniva utilizzato per la colorazione dei tessuti. Quando Isaac Newton scelse sette colori per il suo esperimento volto a dimostrare come i colori non fossero prodotti dai corpi, ma dalla luce stessa, tra questi inserì l’indaco. Così come spiegato sul sito dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, per Newton, “il colore degli oggetti che ci circondano è legato al modo di reagire delle superfici alla luce”, questo spiegherebbe la scelta degli artisti di anteporre l’indaco sulle pareti per interagire con la luce graffiante del Messico. Nelle giornate terse, le pareti rispondono alla luce mescolandosi all’azzurro carico del cielo, come scrisse il poeta e architetto Carlos Pellicer in un componimento dedicato alla Casa Azul, citato in un articolo della redazione de «L’Universal»: “La casa, dipinta di azzurro sia dentro che fuori, sembra ospitare un po’ di cielo”. La storia di Pellicer si intreccia definitivamente con la Casa Azul a partire dalla morte di Frida. Per volere di Diego Rivera, all’architetto fu affidato l’incarico di trasformare questo spazio abitativo in uno museale, affinché l’opera di Frida e gli spazi vissuti dalla coppia potessero essere fruiti da tutti. Quattro anni dopo la morte dell’artista messicana, nel 1958, apre il Museo Frida Kahlo, uno dei più visitati del paese.

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