Poetici e inquietanti sono i tredici racconti de “La città del fumo”, raccolta della cinese Can Xue. Tra scenari fantastici e avversità ambientali, le figure che si muovono in queste storie sono a caccia di un’identità, di un significato che sfugge tra le dita…
La nostra città è chiamata città del fumo, io ne sono un abitante e ho sessantotto anni. Il fumo non è arrivato da un giorno all’altro, ci ha messo molto tempo a trasformare la città in quello che è oggi.
Il mio battesimo letterario con Can Xue è avvenuto tra le pagine di questa raccolta di racconti, La città del fumo (224 pagine, 18 euro), appena pubblicata da Utopia editore con traduzione dal cinese a cura di Maria Rita Masci. Il potere immaginifico di queste pagine lascia un segno indelebile nel lettore, che è travolto, senza alcuna possibilità di ritorno, in un universo onirico e misterioso, dove il confine tra realtà e sogno è fugace.
Un nome simbolico
Deng Xiaohua, in arte Can Xue, nasce a Changsha nel 1953. Considerata dalla critica internazionale come un’esponente di spicco della letteratura sperimentale, ha ottenuto diversi riconoscimenti in tutto il mondo. Lo pseudonimo 残雪 (Cán Xuě), letteralmente “neve residua”, rimanda all’idea della neve ostinata e sporca che rimane alla fine dell’inverno, ma anche alla neve solitaria che resiste sulla cima della montagna. Un nome simbolico che parla di tenacia e isolamento.
Un’opera non convenzionale
Protagonisti di queste pagine labirintiche e surreali, le figure che si incontrano attraverso i 13 racconti sono alla ricerca di un’identità perduta, di un significato che gli sfugge tra le dita. Elemento cardine di tutte le storie è la continua tensione innescata tra luogo e persone, con una particolare attenzione posta alle avversità ambientali. Ogni racconto prende vita all’interno di uno scenario fantastico e misterioso in cui i personaggi riescono ad adattarsi alle estreme condizioni cui sono sottoposti.
Nessuno si chiese che impatto avrebbe avuto sulla città e su di noi quella coltre discesa da chissà dove. La gente si fece una ragione del fatto che fosse arrivata e che non se ne andasse, la accettò come accettava l’aria.
E mentre gli abitanti di una città non riescono più a riconoscersi il volto vicendevolmente a causa della coltre di fumo che li avvolge, alcune pagine dopo incontriamo una donna che parte alla volta di un luogo ameno colpito da violente tempeste di sabbia alla ricerca di un fratello perduto, e poi ancora, in un altro racconto, siamo trascinati su una mongolfiera insieme a Xiao Ping e suo cugino Xu Wu che vuole tentare di sfiorare il pianeta Venere. C’è poi chi vive nella strana casa di tavole di legno, una casa che arriva fino alla nuvola, o in un villaggio invaso da pietre che spuntano dal terreno.
Tra assurdo e profondo
Hai presente Venere? È lei che ho visto prima dell’alba! Tutto era buio attorno, solo lei brillava, sembrava verde. Ho teso un braccio e la stavo per toccare, ma sono stato attratto da una forza implacabile che mi ha allontanato da lei.
Attraverso la sua miscela tra assurdo e profondo, Can Xue ci cala all’interno di storie complesse analoghe a dei sogni, cariche di elementi visionari che mantengono alta l’attenzione del lettore e lo pongono di fronte a continue sfide interpretative. Non esistono tempi o luoghi definiti, non c’è un ordine di inizio, metà o fine: la scrittura offusca costantemente il limite tra realtà e irrealtà, rende tangibile ciò che è intangibile, ma nonostante quanto sopra, anzi proprio per questo, è un libro che trascina chi lo legge. Un libro poetico, inquietante, avvolgente, mai banale, denso e intrecciato. Splendido ma anche confuso. Da leggere se siamo abituati a confrontarci con narrazioni strutturate e desideriamo sorprendere noi stessi.
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