Magliani, esilio e peso specifico della malinconia oceanica

“L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi” del ligure Marino Magliani, edito da Exorma, è un nuovo affascinante capitolo di geografia narrativa personale, che connota la personalissima voce dell’autore

Non è solo uno scavo nei ricordi di bambino e poi ragazzo, non è neanche solo la riflessione su un’ipotetica storia d’amore, né il mero ripensare alla figura del padre, e nemmeno un palese itinerario geografico tra luoghi reali e luoghi letterari. No, il libro di Marino Magliani parla di tutto questo, ma è soprattutto un racconto della malinconia: la sviscera, la affronta, ne esplora le pieghe, la addomestica ripercorrendone i nodi, ricucendo voci, pensieri, episodi che hanno popolato una vita, attraversando quel “peso specifico della malinconia oceanica” che sembra sconfinata, insondabile. È la malinconia dell’esiliato, come sta a indicare il titolo del volume edito da Exorma L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (173 pagine, 14,50 euro) che adombra fughe esotiche e meditazione orientale.

Partenze e ritorni in un racconto multipiano

L’io narrante, figura che ricorda molto da vicino lo stesso autore, e che potrebbe esserlo, in una lettura autobiografica, si sofferma a osservare le torme di moscerini giapponesi che ruotano intorno ai cumuli di alghe sulle rive del Mare del Nord, dove ha scelto di vivere. Ma la costa olandese è solo l’ultimo approdo di una vita che, come ricostruisce questa sorta di memoir attraversato da temi, fili narrativi, pensieri, ha da sempre fatto i conti con la geografia, le partenze, i ritorni e i posti del mondo. Un romanzo? Forse, anche. Ma questo di Magliani è più un racconto multipiano, come fa notare lo stesso narratore nel paragone tra scrittura e paesaggio ligure, un susseguirsi di scogli, e colline terrazzate, squarci nella valle azzurra dell’ulivo verso il mare, che resta lontano.

La Liguria dell’entroterra

Quella di Magliani è da sempre una Liguria dell’entroterra, tra il torrente, le case in pietra, l’umido del bosco, le stufe a legna e il ritmo dell’olivo a scandire il tempo e le mansioni. È la Liguria dell’opaco, l’ubagu, quella categoria calviniana che l’autore ben conosce e sulla quale torna a interrogarsi, nel costante rimuginare dell’esule sulla forma del mondo, incessantemente paragonata alla visione che di quel mondo si aveva durante l’infanzia, affacciati da casa propria, ed è mutata con l’età, con le scoperte, con nuovi posti e nuovi occhi per guardarli: “si scrive – dice l’io narrante a un certo punto – perché c’è un disavanzo del paesaggio”. Opaco e aprico, umido e soleggiato, in una Liguria che, con la sua forma sottile a mezzaluna, nella fantasia del bambino diventa sorriso o espressione triste, affaccio su terre nuove. C’è la Francia subito dopo Ventimiglia, dietro una manciata di promontori a ponente, e più in là ancora la Spagna, le sue coste di plastica; di fronte la Corsica, sogno di isola all’orizzonte, e Genova, che si scorge nella consapevolezza del guardare verso dove sorge il sole. E poi tutto il mondo del nord, quello che risale, dai collegi di Nava e Mondovì dell’infanzia fino a su, al nord che conduce alle dune di sabbia olandesi dove l’autore ha deciso di stabilirsi cercando – e forse trovando – un equilibrio fatto di ritorni costanti verso l’origine e nuove necessarie fughe.

Tentare di leggere il mondo attraverso il confronto con sé

“L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi” non è solo dialogo aperto con il paesaggio e le sue forme, è anche e soprattutto la scrittura del tentativo di leggere il mondo attraverso il confronto costante con sé, con la propria voce, e con la lingua. Non a caso l’io narrante è un traduttore (ancora: una traccia che ruota intorno all’autobiografia), traghettatore di sensi e significati tra universi linguistici, ricercatore, incessante scavatore, pronto a tornare, a interrogarsi, a colmare vuoti tra le lingue. Sembra tutto un movimento – una danza, come quella dei moscerini – compiuto per cercare di colmare un vuoto le cui radici risiedono nell’io narrante, nella sua storia, nei suoi tanti e diversi affluenti

Luoghi e storie da cui fuggire

Nella Liguria di Dolcedo e Prelà, i paesini dell’entroterra di Ponente di cui Magliani è originario, c’è anche l’infanzia dell’io narrante: la cucina di casa, l’orto, il lavoro in Francia del padre, il dialetto con cui dare senso al mondo, i carrugi, i vecchi del paese, un paese di morti, da cui scappare. Via dalla morte del padre e da una kafkiana esperienza nel servizio militare degenerata nel reparto di neurologia. Via da una storia d’amore mai sbocciata, con quella “professoressa” già compagna di infanzia e di prima adolescenza con cui il legame più inaspettato e forte sembra essere la lingua, lo spagnolo. Il tutto nel ripensamento e ricordo continuo dell’esilio, dei suoi tormentati e insondati perché, della sua ineluttabile malinconia, atavica condizione esistenziale, che richiama con costanza verso il paese, verso le cose di casa.

Calvino, Biamonti, Conte e Tabucchi

Non c’è solo Calvino, tra i liguri di quest’opera di Magliani, che allestisce un nuovo tassello di un mosaico già iniziato con i precedenti scritti e romanzi, pronto a disegnare una terra e un modo di guardare e pensare il paesaggio, nonché il suo quasi viscerale rapporto con la narrazione. La ricerca del protagonista si estende oltre la geografia reale, ed entra in quella letteraria, nella ricerca che già tanti scrittori hanno compiuto tra orizzonti, viaggi, fughe e talvolta ritorni. Ecco dunque affiorare Biamonti, scrittore della frontiera e del paesaggio, nelle folate di vento largo, e Giuseppe Conte nella Liguria pronta a franare in mare. E poi, però, c’è anche Tabucchi, principe dell’esilio: il suo incontro con l’autore, le lettere e le tante riflessioni, la sua casa in Toscana, la sua meta da esiliato, una Lisbona che anche l’io narrante ricerca nell’incessante interrogazione sulla fuga, sulle sue molle, la sua necessità e i viaggi della mente, presente o piuttosto volutamente assente, che l’hanno avviata, condotta,  che ancora la animano, facendola tornare su se stessa, facendola guardare allo specchio nel confronto tra luoghi, mari, orizzonti, terre e voci.

L’irrealizzabile eppure necessario ritorno a casa

L’andare via scientifico, l’esilio come “romantico tentativo di portare via dai collegi il bambino nato in un ricovero per anziani”, la “quotidiana invenzione della residenza” che sancisce l’irrealizzabile eppure necessario ritorno a casa, il nostos virtuale compiuto ogni giorno in palestra sul tapis roulant, l’impossibilità di non mettersi in viaggio, di stare fermi: sono temi cari a Magliani, e tornano tutti tra le dune del Mare del Nord e i moscerini giapponesi. Perché l’esilio stesso è lo strumento per colmare i vuoti: è interrogazione senza soluzione, viaggio affascinante tra parole e scritture che compie l’io narrante, ma che ancora di più, in questo nuovo capitolo di geografia narrativa personale, contribuisce a connotare la personalissima voce dell’autore.

Moscerini

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