Englander tra sete di giustizia, ironia e tragedia

“Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank” di Nathan Englander è una raccolta di racconti senza un solo calo di tensione. Lo scrittore statunitense scandaglia Shoah, antisemitismo e autobiografia

Il nettare degli dei era l’ambrosia, quello degli scrittori è – notoriamente – l’invidia. Si nutrono di sentimenti tutt’altro che pacifici ed eleganti, fra loro, e in tal senso ci sarebbe una sterminata sfilza di esempi tratti da qualsiasi secolo, fino alle cronache contemporanee. Il profluvio concentrato di elogi da parte di colleghi che si trova nella quarta di copertina di “Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank” (195 pagine, 19 euro) dello statunitense Nathan Englander, pur non essendo un “unicum”, è il tributo di una generazione a uno dei suoi esponenti più dotati e versatili e al suo libro più bello.

Short stories oltre il politicamente corretto

Einaudi torna a pubblicare Englander, dopo la parentesi mondadoriana del romanzo “Il ministero dei casi speciali”, senza esitare davanti a una raccolta di short story, come negli ultimi anni era già successo con Alice Munro e con la ripubblicazione dei testi di Raymond Carver. Gli stessi “strilli” pro Englander (da Foer a McCann, da Eggers a Franzen) sono presenti anche nell’edizione americana e in quella inglese (che ne hanno anche di più, di scrittori non ancora tradotti in italiano), meno sobrie di quelle dello Struzzo, in cui non c’è nemmeno la foto che testimonia la scomparsa dell’improbabile zazzera con cui lo scrittore newyorchese, cresciuto in una comunità ebraica ultraortodossa, andava in giro fino a qualche tempo fa. Una sforbiciata che non ha attenuato affatto la sua capacità di orchestrare la partitura narrativa, sorretto dalle armi del disincanto e dell’ironia. Anche oltre gli steccati del politicamente corretto.

Echi di Malamud

Il non particolarmente prolifico Englander (che si era rivelato tredici anni fa, con un’altra raccolta di racconti, “Per alleviare insopportabili impulsi”) ha toccato l’apice della sua scarna produzione con un libro che non ha punti deboli né cali di tensione. Capita molto raramente, al giorno d’oggi, che in una raccolta di racconti o in un cd non ci siano cadute o “riempitivi”: è così, come nei “Nove racconti” di J. D. Salinger o in “Anime salve” di Fabrizio De André, anche in “Cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank”. Leggendone molte pagine il pensiero può correre facilmente a Bernard Malamud – cambiano epoche e ambientazione, Englander scrive anche di Israele, dove ha vissuto – ma afflato e potenza non sono poi così distanti.

Tra Shoah, famiglia e antisemitismo

L’ingombrante presenza della Shoah, l’autorità religiosa dei rabbini e dei loro tribunali, la sete di giustizia sono i temi ricorrenti degli otto racconti di Englander, che in un paio di episodi diversamente belli, però, non esita a mettersi a nudo, nella vita e con una profonda riflessione del ruolo dell’intellettuale nel mondo d’oggi (è il caso de “Il lettore”, con un unico spettatore ad assistere a un tour di reading di un autore). Struggente e personale è il racconto “Tutto quello che so della mia famiglia dalla parte di mia madre”, spaccato autobiografico che squarcia riservatezze e reticenze familiari, in cui convivono una storia d’amore e il passato familiare, con tanto di episodi fra humour nero e politicamente scorretto. Non meno stridente è l’incessante dialogo tra due coppie di sposi nel racconto che – omaggio a Carver – dà il titolo al libro: due laici che ospitano gli amici ultraortodossi Yerucham e Shoshana (già Mark e Lauren) e ad entrambe le coppie Englander non fa sconti. Anche l’antisemitismo è scandagliato, i suoi rigurgiti, ma anche le reazioni scomposte in opposizione ad esso: non è un caso che le vittime diventino aguzzini sia tra i giovani protagonisti di “Come vendicammo i Blum” che tra gli anziani di “Camp Sundown”. Geniale è “Peep show”, una summa di paure e temi ebraici (la religione, la psicologia, il rapporto madre-figlio) che si sviluppano in una sexy cabina a gettoni della Quarantaduesima Strada a New York.

Lo zampino di Keret

Ne “Le colline sorelle” e “Frutta gratis per giovani vedove” c’è lo zampino – lo spiega lo stesso Englander nei ringraziamenti – di un talento della letteratura israeliana, Etgar Keret (autore, fra l’altro, di “Pizzeria Kamikaze”, edito da e/o, e del recente “All’improvviso bussano alla porta”, pubblicato da Feltrinelli). Fanno capolino i coloni e il periodo della guerra di Yom Kippur, o i reduci della seconda guerra mondiale, tra destini individuali e storia collettiva, in un crescendo di vendette incrociate e quesiti morali. Non una sola riga di “Cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank” lascia indifferenti: si sorride, si riflette, si ragiona, ci si interroga e commuove. È assolto ogni compito della letteratura.

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