#2 Leggere Mendelsohn e pensare a Roth e Pirsig

Lo statunitense Daniel Mendelsohn, col suo “Un’Odissea”, estrapola i sentimenti più autentici dei protagonisti, rendendoli vulnerabili e veri, e nel costruire la sua architettura narrativa emula lo stesso poema omerico. Poi richiama il meglio di certa letteratura ebraica e l’autore de “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”

Daniel Mendelsohn ha fatto centro. Il suo libro Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea (307 pagine, 20 euro), tradotto da Norman Gobetti ed edito da Einaudi, merita gli applausi che la critica di tutto il mondo gli sta riservando.

Protagonista un padre imperscrutabile

Un libro struggente, un’autobiografia riuscita in cui però il personaggio centrale, man mano che si va avanti, diventa il padre dello scrittore, un matematico in pensione. Un padre curioso e distaccato, severo e fin troppo sicuro di sé. Un padre che all’età di 81 anni decide di seguire un seminario sull’epopea omerica tenuto dal figlio, e che non perde occasione per contraddirlo apertamente, il quale ritiene che Ulisse sia tutto tranne che un eroe, perché mente, tradisce la moglie, non si comporta da comandante vero con i suoi uomini e soprattutto perché riesce nelle sue imprese solo grazie all’aiuto degli Dei. Un padre così diverso (dal figlio) da risultare a tratti imperscrutabile al figlio stesso.

Un moderno Telemaco

E dire che il tema del romanzo non è poi così originale: “L’eterno tiro alla fune tra padri e figli, tra successi e fallimenti”, come scrive l’autore. Nell’ultimo periodo anche due giovani scrittori italiani si sono misurati con l’argomento e, a mio avviso, con risultati apprezzabilissimi. Il riferimento è a Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con Le otto montagne, e a Sandro Campani con il suo Il giro del miele. Anche loro (entrambi pubblicati dalla casa editrice Einaudi) raccontano belle storie, i loro personaggi commuovono, lasciano il segno. Ma Mendelsohn è andato oltre, e non solo perché raccontando l’Odissea ha fatto di sé un moderno Telemaco (come gli dice, smascherandolo, una vecchia amica di famiglia sul finire del romanzo); non solo perché dalle mitiche gesta narrate da Omero ha saputo estrapolare i sentimenti più autentici dei protagonisti, rendendoli umani, vulnerabili, veri. È andato oltre perché nel costruire la sua architettura narrativa ha emulato la stessa Odissea. Già.

La composizione ad anello

Nelle prime pagine del racconto Mendelsohn si sofferma sulla cosiddetta composizione ad anello. E spiega – lui che dello studio dei poemi omerici è un grande esperto – come questa complessa tecnica narrativa abbia permesso a Omero (o a chi per lui) di intrecciare con grande efficacia storie e tempi diversi: «Nella composizione ad anello, il narratore comincia a raccontare una storia solo per interrompersi e riandare a un momento precedente che aiuta a spiegare un certo aspetto della storia che sta raccontando – ad esempio una qualche vicenda personale o famigliare –, poi magari si spinge ancora più indietro a un momento o oggetto o episodio ancora precedente che aiuterà a capire meglio quell’altro momento di poco più vicino, e solo a questo punto ritorna pian piano al presente, al momento da cui si era discostato per fornire tutti quegli antefatti […]. E così la composizione ad anello, che a prima vista potrebbe sembrare solo una digressione, si rivela un mezzo molto efficace per abbracciare il passato e il presente e a volte anche il futuro – perché alcuni “anelli” anticipano eventi che si verificheranno dopo la conclusione della storia principale». Esattamente quel che ha fatto (magistralmente) Mendelsohn: dal seminario tenuto al Bard College col padre presente in aula, alla crociera sulle tracce dell’Odissea fatta assieme al genitore poco dopo la fine del seminario, alla morte seguita ad un banale incidente del padre stesso. Un viaggio. Un viaggio alla ricerca del padre appunto, raccontando sé stesso attraverso l’epopea più famosa del mondo.

Domande tramandate silenziosamente

Mendelsohn rinverdisce la grande tradizione degli scrittori ebrei (o di origine ebraica), penso a Philiph Roth, David Grossman o Eshkol Nevo, ma la sua toccante storia mi ha ricordato un altro viaggio, un’altra ricerca, un’altra storia in cui tutto ruota attorno a un padre e a suo figlio: Lo zen e l’arte della della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, in Italia edito da Adelphi. Nel caso di Pirsig è il padre che cerca e racconta, ma le questioni e le domande sono sempre le stesse, e si tramandano silenziosamente di padre in figlio: “Cosa sarò in grado di dare a mio figlio? Sarò all’altezza delle aspettative di mio padre?”. Da Telemaco a Ulisse, da Ulisse a Laerte, oggi come allora. (2-continua)

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