Fernandez e l’orrore: “Viviamo tutti in una zona grigia”

Nona Fernandez, autrice de “La dimensione oscura”: “La dittatura cilena è una storia raccontata a metà, qui comincia il mio lavoro di scrittrice, c’era un senso del male che incombeva su di noi. Il passato è l’unica cosa che ci permette di capire e proiettarci verso il futuro. Nella atrocità ho visto la possibilità di trovare il mio volto, i nostri volti. Questo può accadere se non guardiamo la storia e ci lasciamo guidare dall’ignoranza. La domanda che dobbiamo porci è: Quanto siamo complici passivi dell’orrore che vediamo in tv e quanto di questo nostro silenzio siamo consapevoli?”

Le narrazioni ufficiali della storia offrono una ricostruzione dove le categorie di innocenza e colpevolezza viaggiano su due binari paralleli, un racconto che a volte nasce da un compromesso tra ciò che può essere detto e ciò che potrebbe, o dovrebbe, rimanere sottaciuto. La letteratura deve invece fare i conti con un materiale che è molto più difficile da catalogare, dove il bene e il male sono spesso compresenti e le distinzioni tra vittime e colpevoli appaiono più labili. Perché grazie alla realtà della finzione narrativa entriamo nei panni di chi è altro da noi e ne conosciamo emozioni, ricordi, speranze frustrate, paure. E sopratutto ci chiediamo: come avremmo agito se fossimo stati al loro posto?
Nona Fernandez, nel suo ultimo romanzo La dimensione oscura, pubblicato da Gran Via Edizioni, parte proprio da questa domanda e si chiede «come si gestisce un museo della memoria», chi decide cosa includere e cosa eliminare. Certo è che da questi archivi imponenti c’è un «universo inquietante» che riesce a sfuggire all’analisi: è la dimensione oscura dell’intelligence di Pinochet, un mondo di ombre e di orrore che si estende ai confini della realtà eppure così pericolosamente vicino alla quotidianità, e racchiude migliaia di persone scomparse e mai più ritrovate. Il libro di Nona Fernandez racconta la storia di un «messaggero del lato oscuro», un uomo chiave del regime di nome Andrés Antonio Valenzuela Morales che decide di rivelare a una rivista di opposizione, in piena dittatura, le atrocità da lui commesse sui prigionieri politici. La vicenda di questo clamoroso pentimento è realmente accaduta: il protagonista di questo romanzo ibrido, un insieme meravigliosamente coeso di cronaca, biografia e fiction, vive tuttora in Francia sotto falso nome e a causa delle proprie rivelazioni non può fare ritorno nel proprio paese.
«L’immaginazione è la chiave per aprire la porta al di là della quale si trova questa dimensione» Fernandez nelle prime pagine del libro, perché dove la realtà è negata il racconto può continuare la storia, non per trovare risposte ma per riflettere sulle tante domande che quella risposta ancora non ce l’hanno.
Nona Fernandez torna a testimoniare gli anni oscuri della dittatura, un tema centrale nella sua proficua produzione letteraria, con un romanzo che il New York Times ha definito una delle migliori opere in prosa di lingua spagnola degli ultimi anni. Al Festivaletteratura di Mantova la scrittrice cilena ha dialogato con i ragazzi di Blurandevú.

Da dove nasce la tua scrittura? Quanto la politica del tuo paese ha influenzato il tuo lavoro di scrittrice e sceneggiatrice?

«La mia infanzia e la mia adolescenza sono legate a un periodo strano e oscuro della storia del mio Paese. Eppure tutto quello che vissuto da bambina appariva normale: era normale che accadessero cose strane che rimanevano senza spiegazione, era normale che saltasse la luce, che si andasse a un funerale, che le bombe interrompessero la nostra quotidianità. I più piccoli affrontavano questi momenti senza capire e i genitori evitavano di fornire spiegazioni, per proteggerli. Quando crebbi e giunse la democrazia, nel passaggio dall’adolescenza all’inizio dell’età adulta, volli capire tutto quello che non mi era stato detto e che era rimasto confuso. Ma sapevo che non avrei trovato molte risposte perché le generazioni precedenti alla mia continuavano a mantenere il silenzio a causa dello shock che avevano provato e per la difficoltà insita nel parlare di eventi
traumatici. Compresi che questo processo di ricerca e di comprensione degli avvenimenti era un percorso che dovevo intraprendere da sola. Se volevo trovare queste risposte dovevo costruire da sola questo puzzle senza poter contare sull’aiuto dei miei genitori. Come quando si è bambini e ti lasciano con una storia a metà perché non ti raccontano il finale, così io sono rimasta con la voglia di raccontare la fine della dittatura di cui non si era parlato. È da qui che prende avvio il mio lavoro di scrittrice, è da qui che prende avvio questo mio tornare continuamente alla mia vita vissuta nel periodo della dittatura. Quello che cerco di fare è recuperare tutto ciò che rimane escluso dalla narrazione ufficiale della storia, dalla storia che si trova nei musei e nei libri di storia, perché quella storia è incompleta e non riuscirà mai a raccontare completamente il periodo drammatico di cui sono stata testimone».

Sei nata negli anni ’80 in Cile e durante il colpo di stato eri ancora una bambina. Ci sono delle immagini che sono rimaste impresse nella tua memoria?

«Sì, ho un immagine ricorrente nella memoria, e spesso mi chiedo se sia reale o inventata. Dobbiamo sempre chiederci quanto dei nostri ricordi sia reale e quanto invece sia invenzione. Ricordo gli aerei che arrivavano a bombardare e ricordo mia nonna che urlava sotto il tavolo. All’epoca avevo due anni, forse tre anni. Molti anni dopo chiesi a mia nonna se questo ricordo che avevo fosse vero ma lei non mi rispose. Ciò che mi è rimasto nella memoria è il suono e il rumore molto forte di questi bombardamenti e l’urlo fortissimo di mia nonna che mi invitava a nascondermi.Tempo dopo, ormai al termine del golpe, in un’epoca in cui avevo più coscienza, mi ricordo i titoli dei giornali che annunciavano la morte di molti sconosciuti.Ricordo di aver partecipato a molti funerali di persone che non conoscevo e di aver acceso candele per loro, e pur non essendo
cattolica ho pregato per loro e per quelle persone che continuamente morivano intorno a noi. C’era una sensazione di inquietudine permanente, c’era un senso del male che incombeva su di noi e che ci minacciava, un male senza volto che ci consumava nel tentativo impossibile di scoprirne l’identità. Gli effetti degli eventi storici nella vita quotidiana sono uno dei tuoi temi ricorrenti. Noi tendiamo a lasciarci influenzare dai grandi eventi del passato ma non riusciamo a usarli per leggere il presente. Perché non sappiamo imparare dalla storia? Forse, e dico forse, perché non siamo capaci di appropriarci di questa storia, perché crediamo sempre che tutto sia accaduto ad altri e non a noi personalmente, perché non ci consideriamo protagonisti di quella storia, non capiamo che la nostra realtà è il risultato di quella storia. Non capiamo che la storia che vediamo nei musei e nei libri è nostra: questo è un punto di vista che dobbiamo comprendere e di cui dobbiamo appropriarci per poter elaborare e capire il presente. Una cosa molto importante in cui credo è che la storia rappresenti la nostra mappa per il futuro: dal passato possiamo imparare a non commettere più gli stessi errori, il passato è l’unica cosa che ci permette di capire e proiettarci verso il futuro. Spetta a noi, a cui quel passato appartiene, interpretarlo e raccontarlo. In alcune zone dove l’inquinamento non è ancora arrivato, i pastori usano la luce del sole per poter condurre le loro greggi. La luce è quella di un milione di anni fa, è la luce del passato, e io credo davvero che questo passato sia l’unica cosa che ci può condurre, come gregge, verso il futuro».

Nel romanzo racconti che quando eri bambina i tuoi genitori ti dicevano che se ti fossi comportata male un vecchio malvagio ti avrebbe rapita e messa in un sacco.
Scrivi: «In segreto volevo conoscere quell’uomo, aprire il suo sacco, entrarci». Già da bambina avevi il desiderio di guardare dentro il sacco del mostro: scrivendo questo libro sei riuscita a guardarci dentro? Cosa ci hai trovato?

«Sì, sono riuscita se non ad entrare quanto meno ad affacciarmi su questo sacco dell’uomo terrificante. Il protagonista del libro è un uomo dell’intelligence di Pinochet, un torturatore di prigionieri che ad un certo punto decide di smettere e sceglie con coraggio di rendere la propria testimonianza degli orrori commessi. Quest’uomo racconta tutto ciò che sapeva anche a rischio di morire e in quest’atto rivela una traccia di umanità nel suo passato oscuro. All’epoca del golpe è un ragazzo dell’età di 18 anni che sta svolgendo il servizio militare, un contadino che si ritrova a ricoprire il ruolo di carnefice e ad intraprendere una carriera infame nell’esercito. Quando sono venuta a conoscenza della storia di questo personaggio mi sono resa conto che non è così difficile trasformarsi in un essere malvagio e crudele: ci sono situazioni in cui la storia ti cade addosso con
tutta la sua pesantezza, situazioni rispetto alle quali tutti noi possiamo chiederci che cosa faremmo se ci trovassimo in quella situazione. Quando la storia ci cade addosso, quando la nostra famiglia è in pericolo, quando la nostra vita stessa è messa in pericolo e siamo obbligati a compiere azioni malvagie, forse potremmo pensare davvero di poter diventare quelle persone malvagie. Che cosa ho visto dentro quel sacco? Ho visto la possibilità di trovare il mio volto, i nostri volti. Questo può accadere se non guardiamo la storia e ci lasciamo guidare dall’ignoranza. Quando avvengono fatti atroci la responsabilità non è solo dei dittatori, ma anche della società e delle persone che assistono a quelle atrocità, di chi permette silenziosamente che tutto questo avvenga. E la domanda che dobbiamo porci è: quante cose permettiamo che avvengano oggi? Quanto
siamo complici passivi dell’orrore che vediamo nei telegiornali, nei giornali e quanto di questo nostro silenzio siamo consapevoli? Queste sono le domande che dobbiamo porci».

Alla fine del romanzo noi abbiamo provato orrore ma non odio per “l’uomo delle torture” perché ci è sembrato rivelarsi un uomo come tanti, con i suoi dubbi, le sue incertezze e contraddizioni. Tu pensi che le persone che agiscono in modo così violento siano poi anche veramente capaci di gesti di bontà e altruismo?

«Io credo nell’umanità e credo che ciascuno di noi conviva con il proprio demonio e con il proprio angelo, che ciascuno di noi abbia in sé sia un eroe sia un villano. Tutti noi viviamo in una zona grigia piena di contraddizioni, tutti noi persone normali che non siamo al potere viviamo nella zona grigia. Io credo nella possibilità del pentimento, ma questo pentimento non può nasconde l’orrore di ciò che è stato fatto, l’orrore rimane tale. Infatti io parlo sempre di un mostro che si è pentito, ma il mostro rimane. Ma ci sono anche mostri che non si sono pentiti: parlo di alcuni militari in Cile che che continuano a mantenere il silenzio e ostacolano la verità. Di questo personaggio di cui si narra
nel libro possiamo invece apprezzare la diversità della sua scelta: quella persona ha responsabilmente deciso di parlare ed è grazie a tutte le testimonianze che ha fornito se oggi molti casi irrisolti si stanno chiarendo.Il motivo per cui mi sono interessata al personaggio è proprio questo suo gesto di umanità, non mi interesso di uomini malvagi e orrendi nella mia scrittura, ma in questo personaggio c’era questa volontà di pentirsi, un gesto che ha pagato e continua a pagare caro perché oggi quella persona vive nascosta in Francia e non può più tornare al suo paese. Certo, avrebbe potuto subire conseguenze peggiori come morire. Questo suo gesto coraggioso è il motivo per cui ho deciso di raccontare di questa figura. Credo che tutti noi abbiamo la possibilità di compiere un gesto di umanità. Se dovessimo vivere in un contesto brutto, che non ci piace e che ci reprime, dentro di noi possiamo trovare la forza di cambiare e dire stop, dire basta; certo nella misura del possibile e partendo dal contesto e dalla possibilità che esso ci offre ma pur sempre mettendo a rischio tutto quello che abbiamo abbiamo. Ed questo è proprio questo che ci permette di imparare».

Nel tuo romanzo intrecci immaginazione e vicende reali: quanto importante è l’immaginazione e quanto è importante la conoscenza per rivelare la verità della storia?

«Questo romanzo è un romanzo ibrido, è in parte una cronaca, in parte una biografia, in parte fiction. Tutto quello che racconto è reale e solo dove non ho potuto contare sulle fonti completo con l’immaginazione. Ma in tutti questi casi nel libro preciso che si tratta di immaginazione. Nella storia del Cile ancora ci sono dei buchi neri da riempire, cose che forse non sapremmo mai perché nel frattempo sono trascorsi molti anni, e l’immaginazione è l’unico strumento che ci consente di riempire alcuni di questi buchi. Io mi servo dell’immaginazione come di uno strumento per riempire questi buchi e come strumento per facilitare la comprensione di ciò che rimane».

Dal tuo account Twitter abbiamo visto che sei stata molto attiva nel comunicare le vicende in piazza riguardo la questione dell’aborto. Ci racconti cosa sta succedono in questi ultimi mesi in Cile e quali sono le prospettive per il futuro? Come giovani donne ci siamo chieste se la partecipazione delle donne possa servire.

«Recentemente in Cile, a maggio di quest’anno, è esploso, o meglio risorto, il movimento femminista che fino a questo momento era rimasto latente. Quello che ha dato l’impulso a questo nuovo movimento è stato da una parte il movimento #metoo e dall’altro un caso di cronaca emblematico. Si tratta di una denuncia di una studentessa della facoltà di diritto contro un docente che aveva approfittato di lei. Questa ragazza ha avuto molto coraggio nel denunciare perché il docente aveva contatti molto importanti vicini al governo. A partire da questo caso sono emersi ulteriori casi di stupro che erano accaduti in altri luoghi e nelle università, sono stati organizzati degli scioperi, delle occupazioni e grazie all’attivismo di tante donne l’attenzione ha contagiato tutto il paese, anche le scuole. Da qui una grande riflessione sul movimento femminista in tutti gli strati della popolazione. L’atmosfera è stata molto effervescente e il dibattito è stato molto acceso in tutta la società cilena. La riflessone si è incentrata sulla posizione della donna nella società, sulla sua visibilità, sui suoi diritti. La lotta che il movimento sta affrontando in questo momento è quella legata all’ottenimento del diritto di un aborto libero. Il Cile è un paese molto conservatore e l’aborto nella storia del paese è sempre stato illegale fino all’anno scorso. Ora si prevedono tre casistiche in cui è consentito l’aborto. La strada è lunga e adesso si lotta per un aborto libero. Personalmente credo che sarà difficile ottenere un aborto libero e sicuro ma quello che è avvenuto di positivo è che questo movimento ha senz’altro cambiato lo sguardo delle donne».

In un contesto sociale che preferisce alzare i muri rispetto a costruire ponti, che valore dai alla parola cooperazione?

«Alla cooperazione do un grandissimo valore. La cooperazione è il grande strumento che ci permette di costruire un mondo migliore. È la creazione di ponti che può migliorare il mondo di oggi. Parlavo con alcuni amici proprio dell’importanza che ha avuto l’immigrazione italiana per il Sud-America: gli immigrati italiani hanno fatto del nostro continente un continente migliore e gli sono davvero grata. Penso che dobbiamo essere aperti alle immigrazioni, dobbiamo saper accettare le differenze. E così come voi siete qui ad ascoltare con interesse quello che è accaduto nel mio paese, dall’altro lato del mondo, questo atteggiamento dobbiamo sempre cercare di avere, un atteggiamento di apertura e di cooperazione. Non posso immaginare la costruzione di un mondo migliore senza la cooperazione, la socialità e l’empatia: questa è la ricetta per un mondo migliore».

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