Janeczek: “Io, figlia di migranti e l’eredità terribile del male”

Intervista alla vincitrice dell’ultimo premio Strega, tornata in libreria con la riedizione del suo romanzo di debutto, l’autobiografico “Lezioni di tenebra”: “Racconto un’esperienza mostruosa che non ho vissuto direttamente, ma i cui traumi si ripercuotono sulle generazioni successive. Il successo allo Strega ha rivoluzionato solo… la mia agenda. In Italia lo sguardo sulle scrittrici sta cambiando”

«Il male che si produce nella storia, che s’infligge agli individui perseguitandoli non finisce lì, ahimè, ma può gravare come eredità terribile per molte generazioni successive». Parola di Helena Janeczek, che ne sa qualcosa, figlia di ebrei polacchi che vivevano in Germania, tedesca naturalizzata italiana, figlia di una donna, la madre, unica sopravvissuta di una famiglia sterminata nell’abominio eterno del male nazista. Lo racconta in Lezioni di tenebra (204 pagine, 16,50 euro), suo debutto in lingua italiana, pubblicato in origine da Mondadori nel 1997, e ora riproposto da Guanda – che già lo aveva rilanciato nel 2011 – sulla scia del successo di Janeczek all’ultimo premio Strega, con La ragazza con la Leica.

Janeczek, la commemorazione della Shoah non smette di risuonare negli uomini di buona volontà. Le posizioni, però, non sono tutte univoche. Per dire, anni fa il suo collega Alessandro Piperno si dichiarava ostile al Giorno della Memoria, naturalmente non per quello che rappresenta, ma per ciò che è diventato, per la retorica che rischia di avvolgerlo. Piperno faceva notare che magari si ricorda la Shoah e poi si dimentica dell’antisemitismo di oggi. Lei che rapporto ha col Giorno della Memoria?

«Molto pragmatico. C’è il rischio, come per tutte le ricorrenze, di farne un monumento funebre, che è l’esatto contrario di quella che dovrebbe essere l’idea della memoria. Credo che ognuno dia un taglio personale a simili occasioni, per me sono un momento alto di riflessione, in cui può germogliare qualcosa di interessante e utile per il presente e per il futuro. Sono molto legata a questo libro su un’esperienza mostruosa che non ho vissuto direttamente, ha una sua semplicità, chiamiamola accessibilità, che ha permesso di arrivare nelle scuole e a me di confrontarmi con gli studenti».

In Lezioni di tenebra è vivissima la dicotomia tra il desiderio di conservare una propria identità culturale, tedesca, e quello di assimilazione in una terra nuova. Inevitabile?

«Credo sia tuttora un’esperienza molto comune alle famiglie di migranti come la mia, nonostante la specificità e l’incommensurabilità della storia legata al genocidio che c’è dietro a quelle come la mia».

È un romanzo, quello del suo debutto, in cui il rapporto con sua madre si rivela in quella che è un’eredità pesantissima, soprattutto a livello psicologico…

«Misurarsi con l’esperienza non direttamente conoscibile di ciò che ha patito mia madre è diventato un modo precoce rispetto a rielaborazioni succesive di tipo psicologico o addirittura neurologico della trasmissione transgenerazionale dei traumi. Trasmissioni a livello genetico, che è scientificamente provato, arrivano anche alla terza generazione».

Quanto resta legata a questo suo libro d’esordio?

«Molto. racconta un’esperienza mostruosa che non ho vissuto direttamente, ha una sua semplicità, chiamiamola accessibilità, che ha permesso di arrivare nelle scuole e a me di confrontarmi con gli studenti».

L’assenza di un’identità precisa, di un confuso senso d’appartenenza, anche a identità linguistiche differenze si è attenuata con la nuova vita che ha scelto in Italia?

«Non mi sarei trasferita armi e bagagli qui se non mi fossi sentita estremamente accolta. Contemporaneamente non credo sia possibile e nemmeno necessario riscrivere la propria storia. Magari è possibile ma non necessario fissare una propria identità, è uno sforzo inutile, se non pernicioso. Penso che tutti quanti possiamo portarci addosso le nostre appartenenze plurime e che queste possono tranquillamente convivere».

Nel romanzo racconta di essere, di volta in volta, chiamata in modi diversi rispetto a quello che dovrebbe essere il suo vero nome di battesimo…

«E, nella storia, in epoche lontane dalla nostra, era abbastanza normale che le persone non fossero così schizzinose, cioé che qualcosa di queste forme simboliche primarie della proprie identità, come il nome, venissero adattate a una nuova realtà».

Il mondo attuale – fra disoccupazione, terrore, incalzare di populismi e nazionalismi – non sembra troppo distante dagli anni Trenta che racconta ne La ragazza con la Leica?

«Per via di una sensibilità e propensione al preoccuparmi di alcune tendenze, le avevo subodorate, e certi segnali inquietanti si sono intensificati. Ho lavorato molti anni a questo libro, non è certo un istant book».

A differenza di quel periodo, oggi non si scorgono molte figure libere, oneste e intraprendenti come la protagonista, la fotografa Gerda Taro…

«Non ne sono così certa. Forse, non con la stessa moralità e tendenza all’eccellenza, ma le colleghe e i colleghi di Gerda Taro anche oggi fanno un lavoro rischioso e preziosissimo di testimonianza, con cui però è diventato molto più difficile campare, più o meno da quando tutti noi facciamo scatti col cellulare. In me c’era un desiderio sì di misurarmi con un periodo così simile al nostro, ma ho scoperto che quel mondo era lontano dal nostro per come ho cercato di raccontarlo, noi nella nostra società siamo molto più soli di quanto non fosse la generazione di Gerda Taro, formata da ragazzi per cui essere vicini e solidali era il modo di stare al mondo, giorno dopo giorno…».

Vincendo il premio Strega ha sfatato un paio di tabù: non vinceva una donna da una quindicina d’anni (l’ultima era stata la Mazzucco) e non aveva mai vinto la casa editrice Guanda, nè Gems, il gruppo di cui fa parte…

«Credo sia stato un successo abbastanza sorprendente, penso che gran parte del merito sia di Gerda, protagonista spregiudicata e favolosa. Questo premio aveva bisogno di rinnovarsi e negli ultimi anni ha fatto tanto per aprirsi a più editori, ha cambiato certe regole per adattarsi al tempo che viviamo».

Eppure sembra che il nome del suo successore (si parla insistentemente di Marco Missiroli con Fedeltà, per Einaudi, ndr) sia già scritto, con parecchi mesi d’anticipo…

«Non mi ero mai occupata tanto delle dinamiche dello Strega. Ho scoperto che è un gioco, ed è un gioco anche dare per certe cose che magari non lo sono, staremo a vedere…».

Il successo nel premio letterario più noto in Italia ha allargato i confini dei suoi estimatori. Ha cambiato la percezione che ha di sè e che gli altri hanno di lei?

«Giocoforza, avendo avuto la fortuna di vincere questo premio, mi si è aperto dinanzi un pubblico più ampio… Io francamente mi sento più o meno uguale a come ero prima, probabilmente perché questo riconoscimento è arrivato a una certa età. L’unica cosa che è davvero cambiata è l’affollamento di appuntamenti nella mia agenda».

Postorino, che si è aggiudicata il Campiello, Santangelo, Gamberini, Pugno, Ambrosecchio, Terranova, Pezzali, Pariani, Attanasio, Canepa. Fra esordienti e autrici più che rodate, è stata una stagione all’insegna delle donne. Si dà una spiegazione?

«C’è una parte consistente di attenzione che è cambiata, non si crede più che i libri scritti da scrittrici siano roba solo per donne. Molti uomini però, a differenza delle donne che non badano troppo al sesso di chi scrive, si precludono ancora certe letture. Poi alcune di queste scrittrici sono importati e affermate, hanno lavorato nel tempo, hanno alle spalle una lunga e onoratissima carriera. In Italia abbiamo scrittrici eccellenti e i singoli premi o certe attenzioni sono sintomatiche di uno sguardo che si sta modificando…». (Questo articolo è stato pubblicato in forma diversa e ridotta sul Giornale di Sicilia)

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