Quirico e il sangue di un giusto, Giovanni Lo Porto

Una storia da ascoltare a occhi spalancati, quella del destino perduto dell’operatore umanitario palermitano Giovanni Lo Porto. La racconta Domenico Quirico, che ne ha condiviso parzialmente la sorte – in “Morte di un ragazzo italiano”, un viaggio al termine di una notte, anche interiore. Il volontario siciliano? Ucciso da chi avrebbe dovuto salvarlo. Senza mandarle a dire agli Usa e a Barack Obama

«Questa storia bisogna ascoltarla non come i bambini le favole, a occhi chiusi. Fa male, gli occhi devono essere spalancati». Un libro che morde il cuore, con l’inchiostro, con la ragione, con l’indignazione e una sottile forma di identificazione. Pagine che contengono riflessioni indicibili, difficili da immaginare se l’autore, Domenico Quirico, non avesse condiviso parzialmente – in altro tempo, in altro luogo – il destino del palermitano Giovanni Lo Porto, rapito in Pakistan da miliziani di Al-Qaida nel gennaio 2012 e morto accidentalmente tre anni dopo, nel corso di un’operazione americana con i droni, il cui obiettivo era un compound jihadista. «Lo uccidono coloro che devono salvarlo», scrive Quirico, ex reporter di guerra («che ingenuamente o con troppa arroganza avevo immaginato di poter domare con le parole?»), che punta il dito contro il reo confesso, Barack Obama, e tutto ciò che rappresenta, anche contro il premier italiano dell’epoca, Matteo Renzi, non per le condoglianze alla famiglia, ma per «la spazzatura politica» e «la miseria» di mettersi in guardia contro le stoccate dell’opposizione e di difendere comunque l’alleato statunitense.

Contro il realismo politico

La tragica fine dell’operatore umanitario palermitano Giovanni Lo Porto è il cuore di Morte di un ragazzo italiano. In memoria di Giovanni Lo Porto (158 pagine, 12,50 euro), pubblicato dall’editore Neri Pozza. Quello di Quirico è un urlo contro imprenditori e teorici del realismo politico, per cui le vite umane sono numeri, contro il sostanziale silenzio della politica italiana sulla vicenda. Sulla morte atroce del cooperante cresciuto nel quartiere Sperone, che lavorava per una ong tedesca aiutando i pakistani colpiti da inondazioni, non è stata ancora fatta luce. Lo scorso marzo, i legali della famiglia hanno ottenuto il rigetto della richiesta di archiviazione, e sono state disposte indagini suppletive. La rogatoria internazionale dei pm era finita sul muro di gomma del Dipartimento di Giustizia degli Usa, che non fornì informazioni, non volendo pregiudicare «la sicurezza o altri interessi pubblici essenziali».

Un dialogo singolare

Quando Quirico – che scrive per La Stampa e oggi è responsabile degli Esteri per il quotidiano di Torino – incontra la madre di Giovanni Lo Porto («Questa Niobe del nostro tempo») e il suo infinito strazio, è stato liberato solo da qualche settimana, dopo una prigionia di cinque mesi in Siria, nel 2013. Quando incontra Giusi Lo Bianco, nel quartiere Sperone di Palermo, è ancora possibile pensare alla liberazione del ragazzo poliglotta, che aveva studiato a Londra e aveva in tasca tre lauree. È un dialogo singolare, di cose dette e di altre omesse, quest’ultime a proposito di umanità a certe latitudini («Potrei dirle… i fanatici non sono più uomini, forse non lo sono mai stati… è gente che sa uccidere… sanno cavarti da dentro ogni goccia di dolore»). È un incontro da cui nasce la scelta di Quirico di «rifare il cammino di Giovanni», a cominciare da Multan, la città in cui fa rapito Giovanni Lo Porto, e mettersi sulle tracce di Ahmed Farouq, piccolo apostolo di Bin Laden, jihadista di passaporto americano. «Sono qui per un’inchiesta privata, sono qui per me stesso. E mi rendo conto che questo modifica completamente lo sguardo che poso su cose e persone, perfino la paura o l’ansia per quello che può succedermi».

Piccolo ingranaggio di un gioco cinico

È un viaggio al termine di una notte interiore, per Quirico, che incontra terroristi e un ex agente speciale, e giunge a una piena consapevolezza («americani e terroristi hanno commesso in fondo un delitto insieme, si sono mescolati nell’immolare il sangue di un Giusto!») e a un fortissimo sospetto: i miliziani non volevano denaro, ma informazioni in cambio della vita dell’ostaggio palermitano. Stesse circostanze, scoprirà, cucite addosso al suo sequestro. Poi torna a Palermo dalla madre di Giovanni Lo Porto con frammenti di verità e dettagli forse trascurabili: il ragazzo ucciso per sbaglio dai droni era – amarissimo constatarlo – il piccolo ingranaggio di un grande gioco cinico e melmoso. Domenico Quirico ha scritto un libretto tutt’altro che consolatorio. Spiega definitivamente che «il tempo non guarisce tutte le ferite».

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