Iannone, quando lo stile determina il contenuto

Con “Arruina” di Francesco Iannone ci si abbandona a una lettura narcotizzante e ipnotica, anche se questo ibrido di picchi melodici e dissonanze, aforistico e episodico, debitore all’oralità di fiabe e leggende, non abdica a una sua trama, una specie di caccia al tesoro, la ricerca di una bimba scomparsa. Vengono in mente, di volta in volta, Pizzuto, Bufalino e i “Cunti” di Giambattista Basile

Sembra che alcuni romanzi siano delle invocazioni agli dei o proprio degli esorcismi per degli indefiniti misfatti compiuti dagli umani. Sarà per questo che la loro oscurità, almeno a una prima lettura, le stesse tenebre nelle quali da sempre brancolano gli esseri bipedi che abitano questo mondo, viene a cercare di sanare e riscattare con quella sorta di incantesimo che è una preghiera o una poesia i nostri peccati e a gettare un fascio di luce sulla nostra ignoranza. Ogni preghiera, come ogni poesia, opera una sorta di sospensione dalle nostre terrigne faccende, dando una prospettiva insolita, in alcuni casi inquietante e orrorifica a ciò che ci si para di fronte. È allora, se si accetta questo paragone preghiera-letteratura, che si può parlare di romanzo gotico, weird, new weird, etc., giusto per orientarsi fra certi cunicoli bui che scaturiscono da certi tipi di scrittura.

Straniante e magmatico

Un romanzo come Arruina (155 pagine, 20 euro) di Francesco Iannone, qui al suo esordio in prosa, con Il Saggiatore, dopo già consolidate esperienze poetiche, forse ha bisogno di una lettura con delle lenti bifocali, e magari anche di più letture, in modo da adattare il lettore alla distanza e alla vicinanza a un testo tanto straniante e magmatico, che sembra respirare, ansimare dello stesso dolore del mondo abitato dai protagonisti, ectoplasmatiche creature da sogno eppure pulsanti di sangue, umori e piaghe in questa tenebrosa vicenda. È il tono, la cifra stilistica, la materia scritta che crea il mondo, come nei più grandi affabulatori. Viene in mente la sfrangiata prosa trasognata di Pizzuto o l’eleganza barocca di Bufalino, per non dimenticare i Cunti di Giambattista Basile, solo per citare alcuni dei riferimenti anche solo geograficamente più vicini al narratore campano, il tutto virato a un gusto dell’orrido e del grottesco funzionale alla tonalità del romanzo. Non si spiegano altrimenti frammenti come il seguente che sembrano avere a che fare più con il bizzarro e il raccapricciante che con la licenza poetica: «Il buio è un fecaloma fermo nella strettoia del retto».

Tra linguaggio poetico e prosa

Una prosa ibridata a un linguaggio ditirambico, fatto di picchi melodici e dissonanze, aforistico e episodico, debitore all’oralità di fiabe e leggende, magari alcune le stesse di quelle scandagliate dal Calvino delle Fiabe italiane, la monumentale opera di raccolta di gran parte della nostra tradizione favolistica fra Otto e Novecento commissionata da Einaudi allo scrittore delle Città invisibili. In un’epoca letteraria nella quale fra romanzi-saggi, romanzi-reportage, autobiografie, autofiction etc., dove l’ibridazione sembra farla da padrone, Arruina parla il linguaggio della poesia e forse indica una nuova e possibile strada al genere romanzo. La commistione tra linguaggio poetico e prosa, crea un denso ibrido, palpitante e onirico, in un’altrimenti quasi banale trama da fantasy nella quale una bambina viene rapita e i genitori, con il concorso di una sequela di esseri dolenti e strampalati, vengono guidati nella sua ricerca fino alla mitica città di Roccagloriosa dove è custodita da delle streghe cattive, «Le Nerissime che alitano sui cuori inseminando un vermaio nel cavo dei toraci». La bambina denominata significativamente la Sperduta, la cui nascita ha causato il prosciugamento delle sorgenti e trasformato i fiumi in delle piaghe riarse, viene rapita dalle Nerissime, come vaticinato dalle vecchie di un paese metafisicamente indefinito, ma nel quale si possono riconoscere alcuni di quei paesaggi aspri e mangiati dal sole del nostro sud, afflitti «dalle fiacche disarmonie dei venti meridionali». Sono quelle vecchie che in una sorta di Annunciazione horror profetizzano che la bambina che nascerà «avrà prodezze di fata e gobbe di mostro, nascerà e il sangue del suo parto turberà la fonte che disseta le Nerissime». Il duplice andamento direzionale del plot del romanzo, nascita della Sperduta e conseguente prosciugamento delle fonti, morte della bambina per opera delle Nerissime e possibilità della loro vita, infatti se la bambina muore le sorgenti ritorneranno a stillare acqua, sembra poter dar vita a una lettura allegorica dell’intero romanzo. Acqua e fuoco, come in un rigurgito degli elementi sembrano essere funzionali a una possibile lettura ancorata al reale e che in tal caso troverebbe un riscontro nella tragica vicenda della frana di Sarno del 5 maggio 1998, dalla quale si può immaginare dedotto il titolo stesso, quando «La montagna fa il dispetto e con un morso stacca un pezzo e te lo sputa», evento che fa la comparsa come dal niente nelle parole dell’O’Mpasturato, un altro dei freak presenti all’interno, un essere metà uomo e metà cavallo con un ago conficcato nel cervello, simbolicamente il ricordo della strage dove ha perso l’intera famiglia.

Viaggio nella psiche

Ma sarebbe riduttivo legare Arruina a un qualche evento storico, perché «la realtà non è l’intero» e «perché la verità non si descrive, perché una storia non si racconta, ma avviene». L’opera di Iannone si dipana come una fiaba raccontata per esorcizzare le forze delle tenebre, in un alternarsi di linguaggio rituale e filastrocche, sciarade e indovinelli, fra l’ esoterico e il dialettale, l’orrido e il sublime, fino a monologhi interiori e frammenti di lettere d’amore immaginarie, qualcosa che sicuramente può apparire in alcuni casi come un mero esercizio di stile se si dimentica la sua più ampia valenza simbolica e allegorica, questa una possibile chiave di lettura di questa favola oscura, come reca il sottotitolo in frontespizio. Arruina di Iannone, può essere letto come un viaggio nella psiche, all’interno di segrete forze di cui non siamo padroni e dei corpi che abitano questi antri oscuri. Corpi dilaniati, corpi lacerati, distrutti, piagati, perché vivere e l’atto di nascere stesso è una mutilazione, ci viene detto: dal grembo materno e dal palpito universale si crea una separazione; la Sperduta ne è l’esemplificazione; piaga e cura; una sempiterna mutazione che prelude a una rinascita. E allora il romanzo lascia intravedere anche una trama nel suo scorrimento quasi da thriller con la ricerca da parte dei genitori della Sperduta, «la bambina magica», colei che «ha fermato il flusso dell’acqua con la sua nascita», una sorta di nemesi sotto le sembianze di un essere deforme, una dea riparatrice dei guasti del mondo che «quando nacque aveva le ciglia lunghe, la pancia gonfia, un geroglifico di rughe sul collo».

Tra figure da Volodine e Ianare

La Sperduta rivive nel ricordo dei vari avvistamenti che di lei si hanno da parte dei vari personaggi e figure che sembrano uscite da un romanzo di Volodine e che i due genitori incontrano nel loro cammino verso Roccagloriosa: il Poeta Antico che vive in una spelonca con l’archetipica e moribonda «Grande madre», ascoltando massime diffuse via radio del tipo «I “concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce»; La Briganta, così chiamata perché «da giovane sollevava mareggiate e ribaltava mondi», qualcosa a metà fra una madonna laica e una Moira, la quale auspica che la Sperduta non venga ritrovata e sembra essere la testimone privilegiata dell’uccisione dei bambini, perché la crudeltà del creato con la sua raffinatezza ha pensato solo a questo, alla distruzione della vita che sboccia, alla corruzione dell’innocenza; La Sciangata che a tutti ha dato amore senza riceverne, una specie di Bocca di Rosa di De Andrè in versione gotica. Tutte figure accompagnate dalla costante presenza delle Ianare, delle streghe reiette che hanno assunto le sembianze di cinghiali, scacciate dal regno delle Nerissime e che solo per fare loro un dispetto condurranno i due genitori a Roccagloriosa al cospetto della Sperduta. Confraternite di streghe e altre streghe in combutta o conflitto con altre confraternite di streghe che ricordano per certi versi le madri di Suspiria, custodi di segreti ancestrali e garanti della loro stessa esistenza. L’elemento stregonesco e l’eterno e tenebroso femmineo, quel qualcosa che simbolicamente può essere accostato alla vita stessa, è in effetti un aspetto molto presente nel romanzo di Iannone, così come l’infanzia con le sue ancestrali paure, come quando i bambini pensano che sotto la culla vi sia una belva feroce che voglia sbranarli e allora piangono per invocare aiuto. I bambini cresciuti magari ci scrivono sopra un libro su quel mondo fatato e tremendo dal quale l’autore nella poetica e potente epigrafe al romanzo posta nella pagina dei ringraziamenti ammette aver tratto ispirazione per la sua opera: «gli abbandoni nei vortici dei gorghi dell’infanzia».

Alla fine un risveglio

Se la capacità che può avere un romanzo di parlare a territori sconosciuti dell’anima, o della psiche se si preferisce, è uno dei meriti da poter ascrivere a un’opera letteraria, la stessa cosa che al cinema accade in molti film di Bergman, la favola oscura di Iannone sicuramente di meriti ne ha molti. Il suo stile ne determina il contenuto, con una scrittura avvolgente e visionaria, come in un brano musicale dove armonia e melodia si incastrano alla perfezione. Una lettura ipnotica, narcotizzante, che pure non abdica a una sua trama, che è quella di una sorta di caccia al tesoro fino a dover raggiungere Roccagloriosa per ritrovare  la Sperduta «che ora è un faro bianco, ha la secchezza della saliva delle rondini in inverno», lì dove può entrare «solo chi ha un miracolo da mostrare», prima del liberatorio capitolo finale che ricorda per certi versi la sequenza all’inizio e alla fine di Velluto blu di David Lynch, quella con l’orecchio nascosto nell’erba del giardino, capitolo che non può che intitolarsi Risveglio, che è un po’ la sensazione che si ha accomiatandosi da questo romanzo.

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