La frontiera termometro del mondo, il testamento di Leogrande

“La frontiera”, reportage narrativo del compianto Alessandro Leogrande, racconta i flussi migratori senza dimenticare i motivi originari (che scattano ben prima di quando i migranti solcano il mare e giungono sulle coste), le singole storie e i vissuti irripetibili degli individui, scalfendo i muri di indifferenza e di insofferenza

Per assorbire profondamente il segno, il significato de La frontiera (320 pagine, 10 euro), edito da Feltrinelli nel 2015, dovremo iniziare a leggere il reportage narrativo del compianto Alessandro Leogrande dal capitolo che chiude il volume. Il titolo del capitolo è La violenza del mondo.

L’artista e la violenza

Lo spunto è dato allo scrittore e giornalista tarantino prematuramente scomparso nel 2017 dalla tela del Caravaggio che si trova nella Chiesa di San Luigi dei francesi a Roma: Il martirio di San Matteo. Il dipinto coglie l’attimo pochi istanti prima dell’esecuzione del futuro martire cristiano. Nell’analisi del dipinto l’attenzione si concentra su una figura marginale che appare alle spalle del boia, quasi in penombra, un uomo con la barba che osserva la truce scena, per tutti i critici l’autore stesso del dipinto, Caravaggio. Quella figura diventa una sorta di manifesto, una riflessione sulla violenza del mondo e  «sul rapporto che instaura con essa chi la osserva». Alla violenza del mondo, quella più cieca, estrema, che atterrisce, di fronte alla quale il più delle volte semplicemente si fugge e raramente capita di intervenire, il massimo che può fare l’artista, l’intellettuale, è provare pietà, rappresentare il massacro, provando  in questo modo ancora maggior commiserazione verso sé stesso di coloro che invece semplicemente fuggono (tutti gli altri protagonisti e spettatori inermi del quadro). Anche l’artista, nel caso specifico Caravaggio, non fa niente, tranne osservare con impotenza, seppur ponendosi nella scena, infatti si trova nella tela e non fuori, come Leogrande, che con la stessa pietas dai due lati della frontiera che attraversa le nostre anime e il nostro mondo, il cosiddetto sud e nord, per utilizzare un’espressione certamente desueta e che non rende giustizia ai vissuti individuali e irripetibili che ineriscono ai due campi, ci restituisce sulla pagina i racconti altrimenti inascoltabili di coloro che l’hanno varcata quella frontiera.

La lezione marxista nell’analisi della società

Con un potente fascio di luce Leogrande ci restituisce quasi in presa diretta dalla loro stessa voce, i racconti di donne e uomini e delle profonde motivazioni che li hanno portati a percorrere migliaia di chilometri abbandonando le loro terre di origine, nelle condizioni più mostruose, avendo subito le violenze più inenarrabili (per coloro che ce l’hanno fatta), chiamando contemporaneamente in causa, proprio per effetto di quelle motivazioni, noi tutti che qua, da quest’altro lato della frontiera, osserviamo, leggiamo. Leogrande in tutti i suoi lavori, purtroppo per tutti prematuramente interrotti, è stato il cronista e intellettuale che è riuscito ad assumere al meglio su di sé la limpidezza della lezione marxista nell’analisi della società e delle dinamiche della produzione che ne determinano gli sviluppi. Senza fare di questa un’arma ideologica, è riuscito con la sua testimonianza e il suo lavoro sul campo a mettere in piena luce frammenti e vissuti altrimenti marginalizzati: dalla sua Taranto, la città avvelenata dall’Ilva che tratteggia nel volume postumo Dalle macerie uscito nel 2018 per Feltrinelli, alla nuova schiavitù che si consuma nelle campagne pugliesi, dove ogni estate migliaia di stranieri provenienti dall’Africa o dall’Europa dell’Est finiscono nella morsa del sistema arcaico e disumano messo in piedi da caporali-aguzzini che con la compiacenza dei locali proprietari terrieri sembrano replicare lo sfruttamento e l’organizzazione concentrazionaria di cento anni fa, quando allora sotto il loro giogo vi erano i braccianti pugliesi. Di questo Leogrande parla in Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud  (Mondadori) e pare quasi impossibile che questo fenomeno, la schiavitù, perché di questo si tratta, sia tutt’ora in atto nelle nostre terre, oggi, a pochi chilometri dalle nostre città, dalle nostre case e dai nostri luoghi di lavoro. Il cronista Leogrande ha la grande capacità di farci vedere da vicino questo fenomeno che siamo abituati a pensare esoticamente lontano nel tempo e nello spazio. La sua opera di denuncia ricorda quella dei meridionalisti Salvemini  o quella di un Giuseppe Di Vittorio aggiornato al tempo di oggi, quello delle grandi migrazioni, tema questo già affrontato nell’esordio al reportage narrativo del giornalista, già vicedirettore de Lo Straniero, in Un mare nascosto che affronta la tragica vicenda e i controversi esiti processuali del naufragio della Katër i Radës, la motovedetta albanese speronata da una corvetta della Marina militare italiana nel 1997 a seguito del quale ci furono 81 morti e 27 dispersi.

Dalla viva voce, in presa diretta

Compiutamente il tema delle migrazioni è trattato ne La frontiera. I racconti raccolti in presa diretta di uomini e donne che sono approdati nel nostro paese e che si dichiarano sotto falso nome per timore di ritorsioni da parte di sicari dei regimi dai quali sono fuggiti si dipanano pagina dopo pagina dalla viva voce dei protagonisti, racconti che Leogrande ha raccolto e assemblato in questo volume che tutti dovrebbero leggere perché «la frontiera è il termometro del mondo». Ad alcune delle storie raccontate, noi dalla nostra prospettiva, dal nord, al di qua della frontiera, potremmo persino stentare a credere, tanto truci, crudeli e orrorifiche appaiono (su tutto le torture alle quali sono stati sottoposti donne e uomini in Libia e altrove durante il loro viaggio). Eppure le storie, raccolte dalla viva voce di esseri umani fuggiti da dittature spietate, spesso alimentate con la compiacenza di quei paesi dove ora i migranti si dirigono, spinti da povertà e fame, quelle storie non iniziano a vivere nel momento in cui quelle imbarcazioni appaiono davanti alle nostre coste, ma molto prima ci dice Leogrande, e i motivi sono spesso complicati, darne conto alcune volte impossibile, perché oltre che sociali, politiche, sono spesso esistenziali e sconosciute agli stessi protagonisti quelle motivazioni. Scopriremo così che «C’è un est molto più a est dei Balcani e un sud molto più al sud del Maghreb» e che le frontiere, quelle umane, non quelle disegnate sulle carte geografiche, vengono tratteggiate di nuovo e di continuo in questo nostro mondo, da guerre, politiche economiche, disastri ambientali.

La fredda contabilità

Scopriremo la storia di Shorsh un ragazzo curdo iracheno che come unico legame con la sua terra si è portato dietro un vhs che testimonia il massacro ad opera di Saddam Hussein nel 1988 ad Halabja, quando le armi chimiche fecero una carneficina di uno dei popoli più perseguitati dell’era moderna.

Scopriremo la storia di Hamid, il ragazzo somalo scampato al grande naufragio del 2011 davanti alla costa libica nel quale persero la vita 650 esseri umani: ci chiede retoricamente Leogrande: «prendi 650 corpi, 650 corpi di uomini, donne, bambini, anziani e donne, prendili uno per uno e disponili in fila. Quanti metri è lunga la fila, fin dove arriva? Non pensare ai loro volti, non pensare a quello che hanno patito, pensa solo a quanti sono. Entrano tutti in un appartamento di medie dimensioni? Entrano in un cinema? Sono sufficienti i gradoni della curva di uno stadio?», Questo solo per dire quanto la frontiera fra «noi e “loro», fra le nostre più o meno grandi beghe domestiche e i drammatici eventi legati alle migrazioni sia soprattutto percettiva, affogati come siamo nella melma massmediologica creata ad arte per anestetizzare le coscienze, e quanto la fredda contabilità dei morti in mare sparata troppo spesso asetticamente dalla vulgata giornalistica dimentica i dettagli, i singoli vissuti, le dinamiche e le motivazioni che hanno portato a quelle tragedie, perché, come ci ricorda continuamente Leogrande, i viaggi (e quindi i naufragi) arrivano solo dopo tutto questo.

Lampedusa 2013, lo spartiacque

Scopriremo la storia degli eritrei e dei fantasmi coloniali a essa collegata, i nostri fantasmi, quelli di noi italiani colonialisti, la scopriremo a partire dal terribile naufragio del 3 ottobre 2013 di fronte all’Isola dei Conigli a Lampedusa, nel quale la stragrande maggioranza di morti (368 totali) proveniva proprio dal paese del Corno d’Africa ex colonia italiana. Ci renderemo così conto che gli eritrei fuggono da una feroce dittatura che li obbliga al servizio militare a vita, che il naufragio di Lampedusa è stato un po’ lo spartiacque nella «gestione» del  «problema» immigrazione a livello istituzionale con il varo dell’operazione Mare Nostrum, perché anche lo stato italiano non poteva più far finta di niente, operazione del resto presto abbandonata per i suoi insostenibili costi, quasi fosse lecito considerare la vita umana una semplice variabile economica.

Scopriremo le dinamiche della tratta dei migranti fino nei dettagli dell’organizzazione criminale che la gestisce, l’inferno delle prigioni del Sinai dove è stata documentata la raccapricciante scoperta del traffico di organi espiantati ai migranti uccisi, organi inviati come semplici lavatrici o frigoriferi verso il nord del mondo, oltre la frontiera, scopriremo altre prigioni, quelle libiche, sembra che il percorso dei migranti dal Corno d’Africa verso l’Europa sia un continuo passaggio da una prigione all’altra.

Scopriremo anche l’opera quasi clandestina di soccorso ai migranti di un prete eritreo, Don Mussie Zerai, il cui numero di cellulare i migranti conoscono a memoria e si può trovare scritto sui muri dei capannoni-prigione in Libia, nei pick-up che attraversano il deserto ed è in bocca a tutti coloro che cercano di fuggire dalle grinfie dei trafficanti aguzzini.

Ascolteremo anche dalla viva voce dei protagonisti i deliri nazisti dei seguaci di Alba dorata, coloro con i quali «sembra di parlare con un muro» come ammetterà sconsolata la presidente dell’Unione musulmani di Grecia, in quel paese già culla nei secoli della cultura occidentale e assurta nel decennio appena trascorso, fra crisi economiche e troike, a simbolo della decadenza del nostro sistema-mondo.

Tante scoperte

Scopriremo lo svilupparsi delle nuove tratte terrestri dei Balcani, perché la frontiera muta di continuo e con essa c’è da augurarsi anche la sensibilità e le soluzioni a problemi tanto immensi da non poter essere lasciati all’incantatore di serpenti o al presunto macho di turno.

Scopriremo questo e molto altro nel reportage narrativo del compianto Alessandro Leogrande, e se anche un libro non cambierà il mondo e non lo renderà necessariamente migliore, potrà avere come minimo risultato il farci guardare quelle donne, quegli uomini che occupano i nostri stessi spazi, nelle strade delle nostre città, nelle scuole, negli ospedali, con un occhio diverso, magari con un minimo di curiosità verso le loro singole storie che scalfisca il muro di indifferenza quando non di insofferenza, e questo potrà essere un primo passo verso un futuro di reciproco riconoscimento e scambio che chissà in quale futuro si realizzerà.

Se saremo disposti ad accettare la massima di Theodor Adorno secondo la quale «La più alta forma di moralità è sentirsi estranei a casa propria» avremo fatto già un piccolo grande passo in avanti e oltre la frontiera «in difesa degli ultimi e dei ferocemente sfruttati nei più diversi contesti: nell’ambito del caporalato, degli immigrati, dei desaparecidos in Argentina, e ovunque ci sia stato un sopruso» come Stefano Leogrande, il padre di Alessandro, ha voluto ricordare il figlio e il suo lavoro di intellettuale, giornalista e attivista, il cui patrimonio c’è da augurarsi possa essere tramandato alle future generazioni.

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