Petrucci: “Lontana dai canoni italiani, ragiono sull’identità…”

7 domande a Claudia Petrucci, autrice de “L’esercizio”, esordio felice nonostante il… lockdown. “Vivo in Australia, spero di tornare presto in Italia per le presentazioni dal vivo, dopo quelle on line. L’identità? Un tema scivoloso, plurivalente e oscuro. Credo che ognuno interpreti se stesso, ed è giusto finché siamo noi a decidere chi essere. Poco eros nel triangolo di personaggi? Non ne ho avvertito la necessità. E sui miei riferimenti letterari dico…”

Non è passata inosservata la pubblicazione de L’esercizio (333 pagine, 18 euro) di Claudia Petrucci, edito da La Nave di Teseo, con prossima traduzione in tedesco e in francese. Milanese, laureata in Lettere Moderne, Petrucci da tre anni vive e lavora in Australia, a Perth. Prima del suo romanzo di debutto aveva scritto alcuni reportage e racconti per riviste on line. L’esercizio ha intercettato un ottimo riscontro fra lettori e critici e, da alcuni giorni, è tra i semifinalisti del premio John Fante Opera Prima 2020, che avrà il suo epilogo ad agosto.

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Claudia, innanzitutto complimenti perché hai scritto davvero un romanzo di spessore, per certi versi sorprendente, se teniamo conto di quanto sei giovane e che L’esercizio rappresenta di fatto il tuo esordio nella narrativa. Stai ricevendo tantissimi elogi, dalla critica e dal pubblico. Te lo aspettavi?

«Ci speravo, come chiunque arriva alla pubblicazione. Ho cercato di non costruirmi aspettative, di non pensare a come sarebbe stato ricevuto il libro dal pubblico e dalla critica perché ne temevo il giudizio: credo sia un libro un po’ particolare, per certi versi estraneo ai canoni attuali, almeno per ciò che viene pubblicato ora in Italia. Invece finora sono arrivate solo tante belle soddisfazioni. È doveroso anche ricordare che questa serie di riconoscimenti si sono concretizzati grazie alla fiducia che Elisabetta Sgarbi ha voluto riporre nel romanzo. Pubblicare con La nave di Teseo, che ha in scuderia nomi grandissimi e di qualità, è di per sé un certificato di pregio apposto all’opera».

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Tu hai studiato a Milano, ma adesso vivi in Australia: da lì, come stai vivendo questo successo, cioè in tempi di coronavirus e lockdown. Immagino in queste settimane saresti stata in giro per l’Italia a presentare il libro, invece…

«Sono stata in Italia a febbraio, giusto il tempo di partecipare a un paio di presentazioni, poi è scoppiata l’epidemia e son dovuta tornare in fretta e furia in Australia. Avevo programmato di rimanere un mese, c’erano altre date già fissate che purtroppo sono saltate. Diciamo che adesso, da qui, sono tornata a seguire tutto virtualmente. Certo, mi sarebbe piaciuto fare qualche altra presentazione, perché è bello ed emozionante avere di fronte i propri potenziali lettori, assistere alle loro reazioni, rispondere alle loro domande. Spero di tornare presto in Italia. In compenso ho partecipato e sto continuando a partecipare a molte presentazioni virtuali, che non mi dispiacciono, perché hanno certamente un loro senso, si rivolgono a un pubblico mirato. In futuro spero di compensare con altre presentazioni dal vivo che invece danno modo di avere un contatto diretto col pubblico».

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Entriamo nel merito del romanzo. La protagonista è una giovane donna di nome Giorgia con un gran talento per la recitazione. La storia però è raccontata in prima persona dal suo ragazzo, Filippo. Una scelta che dal punto di vista narrativo è piuttosto insolita, ma funziona alla grande. Com’è nata questa idea?

«La scelta è motivata dalla volontà di mostrare il punto di vista di Filippo, cioè di un ragazzo innamorato, possessore di una visione le cui derive, proprio in quanto innescate dal sentimento, possono risultare inquietanti. Filippo infatti si muove in buona fede, vuole essere d’aiuto a Giorgia, ma poi finisce per deragliare. La scelta di non dare una voce a Giorgia l’ho ritenuta funzionale all’obiettivo che mi sono posta, cioè quello di affrontare la questione dell’identità che è certamente un tema scivoloso, plurivalente e oscuro».

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Tra Giorgia e Filippo, che all’inizio – seppur tra mille difficoltà – sembrano avere un loro equilibrio di coppia, irrompe Mauro. Sarà lui, proponendo a Giorgia di tornare a recitare, a far detonare le vite dei singoli personaggi, a trasformare il racconto in uno psicodramma. Mauro è il cinico, quello più vissuto e malizioso, quello che manovra gli altri, che trama e tira le fila. Sarà sua l’idea de L’esercizio, cioè di riscrivere la personalità di Giorgia per provare a tirarla fuori dallo stato catatonico in cui è finita. Di fatto Mauro, con l’ingenua complicità di Filippo, fa sì che la mente di Giorgia interpreti il proprio personaggio. Escamotage letterario raffinato e riuscitissimo, ok. Ma ti chiedo, si può realmente impersonare se stessi?

«Bella domanda… l’argomento è complicato, ma ritengo di sì. Noi agiamo un po’ come scrittori delle nostre vite, offrendo indizi ai nostri interlocutori. Il problema si pone nel momento in cui non c’è allineamento tra la nostra visione e quella dell’altro. Un cammino ancora più rischioso si apre quando qualcuno prova ad imporre la propria visione all’altro, come fa Filippo con Giorgia. Ritengo che ognuno interpreti sé stesso, dando vita a più personaggi, ed è giusto che sia così, va bene, ma solo fin quando siamo noi a decidere chi essere, fino a quando questa autorità non si trova nelle mani gli altri».

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Ci si aspetterebbe una componente erotica importante, da un romanzo come L’esercizio. Invece, l’eros e il sesso sono appena accennati. Non che se ne senta il bisogno, attenzione, ma ti chiedo come mai non hai ceduto a questa tentazione?

«Questa riflessione mi è stata sottoposta da una lettrice. Personalmente non mi sono posta la questione. Rimedierò col prossimo romanzo (ride, ndr)… A parte le battute, credo semplicemente di non averne avvertito la necessità in fase di stesura del testo, ma capisco cosa intendi, la domanda è legittima».

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Ne L’esercizio ti rifai a Pirandello: il teatro come metafora della vita; e poi le maschere che ognuno di noi indossa. Insomma volendo sintetizzare ed estremizzare il concetto, recitiamo continuamente. Allora la domanda che ti faccio è questa: esiste la sincerità e se sì, che cos’è?

«A questa domanda potrei dare risposte sempre differenti, a seconda del momento in cui me la poni. Ora ti dico che verità e onestà si misurano sulla versione di vero che decidiamo di adottare per noi stessi. Cerco di spiegarmi, facendo un esempio: Filippo è innamorato di Giorgia, è per questo che la soccorre nel momento in cui Giorgia ne ha bisogno: è ciò che ci aspetta da lui; Filippo ha inoltre deciso di incarnare la figura del soccorritore anche nei confronti dei suoi genitori: lo ha fatto rinunciando alle sue aspirazioni per occuparsi dell’attività paterna. Abbiamo quindi un personaggio che aderisce a dei modelli specifici, ben definiti, mettendo in atto una serie di azioni coerenti all’identità che si è imposto, eppure non molto brillanti, quasi dannose per il suo benessere personale. Sebbene Filippo non lo ammetterà mai a sé stesso, la verità è ciò che lui si racconta, niente di più, nessun assoluto: credo che questo valga un po’ per tutti».

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Concludiamo questa chiacchierata con i tuoi riferimenti letterari: quali letture o autori ti hanno “aiutata” nella stesura di un romanzo così complesso e variegato dal punto di vista sia tecnico che emotivo?

«Primo fra tutti, indico Solaris di Stanislaw Lem perché anche lì c’è un gioco profondo costruito attorno al tema dell’identità, sebbene il contesto sia fantascientifico. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks, Eva futura di Villiers de L’Isle-Adam, Scritto sul corpo di Jeanette Winterson. E poi La guardarobiera di Patrick McGrath e Finzioni di Jorge Luis Borges, nello specifico il racconto dal titolo Le rovine circolari».

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