Si può essere diversi da ciò che si è stati? Risponde Hansen

In “Tornare a casa” Dörte Hansen tratteggia un ritratto fugace di una famiglia interrotta e priva di parole. Con uno stile che mutua dal paesaggio il mordente e la voracità degli spazi, racconta un ritorno a casa che distrugge la pace dei sogni, sfidando i suoi personaggi sul piano della sincerità

Non vogliam lasciarci mai… A Ingwer sembra di sentire ancora questa canzone echeggiare nelle stanze della locanda. Le canzoni gliele aveva insegnate sua madre, Marret, «aveva un paio di vaghi ricordi di lei che risalivano alla prima infanzia, surreali come sogni, ma sempre con la musica». Lo addormentava con un mangiadischi, in cui ogni sera le canzoni si susseguivano tutte uguali, e in quelle prime fasi, quando Ingwer non capiva il significato dei testi, la melodia lo affascinava, ma quando aveva iniziato a comprendere le parole, «le canzoni di Marret gli avevano tolto il sonno. In quelle canzoni pareva che tutti dovessero sempre andarsene, partire, impossibile restare, sarebbero rimasti volentieri, ma doveva dirsi addio». Quelle canzoni erano state le sue ninnenanne.

La locanda dei nonni

Ingwer – protagonista di Tornare a casa (439 pagine, 18,50 euro) di Dörte Hansen, tradotto da Teresa Ciuffoletti per Fazi – è tornato a Brinkebüll nella casa di famiglia per assistere i suoi nonni, ormai anziani, per festeggiare le loro nozze di ferro, continuando a chiedersi come avessero fatto tutti quegli anni a resistere, a stare insieme, c’era voluta una certa indulgenza nel loro rapporto. Ma c’è di più, perchè sono almeno cinquant’anni che Ingwer ha con i suoi nonni un rapporto molto particolare, sono anni in cui continuano a giocare al gioco padre-madre-figlio: «ormai quasi non contava più che non ci fosse mai stato alcun padre, e neanche una sorella maggiore di nome Marret». Ma lui era figlio di Marrett, non il fratello minore e questo la dice tutta su ciò che può essere accaduto nella famiglia Feddersen e che deve aver spinto, in qualche modo, Ingwer adolescente a lasciare la casa materna e trasferirsi altrove. Dietro al bancone della locanda dei suoi nonni, della quale gli spettava in eredità la gestione, ha maturato questa decisione, troppi balli nuziali che non avrebbe augurato nemmeno al suo peggiore nemico, lo avevano convinto che Brinkebüll era troppo stretta per lui.

Il borgo e quell’incidente

In quel piccolo borgo della Frisia settentrionale, in cui si giocava al “gioco del budino”, ancora prima che Ingwer venisse al mondo, di cose ne sono accadute tante. Da una certa estate in poi sua madre Marret si convinse che il mondo stava finendo e non perdeva occasione per portare il suo messaggio casa per casa, leggeva segnali che nessuno vedeva, nonostante fossero sotto gli occhi di tutti. Tutto iniziò quell’estate in cui non si videro le cicogne, gli spinarelli galleggiarono nell’acquitrino e i vecchi olmi si seccarono, “i rami spogli già nel mese di giugno”, i cacciatori vagarono per i campi alla ricerca della lepre ma restarono a bocca asciutta, ma soprattutto il mondo finì e spaccò in due il paese di Brinkebüll, «quando investirono il figlio minore degli Hamke sulla strada nuova». Ingwer ricordava Brinkebüll come «un vecchio paese dalle strade sterrate tutte sconnesse, i sentieri battuti, e la via principale con i castagni, i terrapieni e le siepi dagli alti cespugli. Misere case coloniche, stalla e soggiorno contigui, ammassate al centro del paese». Un paese costruito sulla terra nuda, «terra che sembrava devastata e sfinita», terra morenica in cui sua madre era cresciuta con il marchio di “svitata”, si sentivano i suoi zoccoli bianchi percorrere il paese il lungo e in largo, entrare nei giardini e negli orti e cibarsi direttamente dalle piante.

L’incomunicabilità come eredità

Eppure chi aveva provato a capire Marret? Persino i suoi genitori ci avevano rinunciato, preferivano cordialmente accettare i suoi colpi di testa, che sedersi e provare a dialogare. Tutta questa incomunicabilità Ingwer se la porta addosso e ricopre i suoi ricordi di un silenzio che ferisce, ad esempio negli ultimi tempi sognava di precipitare, «in caduta libera nello spazio». «Marret era svitata», così la leggevano gli abitanti del villaggio e lei nel suo appartarsi dal mondo, lei che sembrava vivere «protetta da una parete di vetro», aveva finito per crederci; non aveva impedito alle malelingue di parlare alle sue spalle; agli uomini di approfittarsi di lei. «Era qualcosa di fugace, in balia dei venti, che cambiava forma di continuo, duna di sabbia, nuvola, mercurio, non aveva confini».

Un triangolo per niente amoroso

Eppure Ingwer sentiva questa distanza, quei pochi ricordi d’infanzia non lo aiutavano e ora che era lì per badare ai suoi nonni, si rendeva conto di quanto fossero invecchiati: “vedeva due vecchi bambini, figli della Geest che nella vita avevano dovuto accontentarsi delle briciole”, Ingwer sa che è di affetto che si deve riappropriare, quel linguaggio d’attenzione che deve imparare, che il suo scarno dizionario non possiede ancora. Oggi Ingwer non è più sicuro di nulla. La scelta di vent’anni prima di andarsene di casa, non prendere le redini della locanda, dimenticare quella madre scomoda, e ritrovarsi a vivere con Claudius, figlio di un giudice e Ragnhild, figlia di un diplomatico, oggi pesa dolorosamente. Quella villa di Kiel in cui da anni si consuma un triangolo, per niente amoroso: “una donna e due uomini, uno scarabocchio buttato giù senza prendere le misure eppure molto stabile”, sarebbe stata ancora la sua casa? Pensa che forse una volta è stato vicino a provare qualcosa di amoroso nei confronti di Ragnhild, ma quella donna ormai non la capiva più, amava quei silenzi mattutini in cui lei si rivelava a lui senza bugie addosso, ma poi diventava ostile nei suo essere “sguaiata e scorbutica”.

Il tempo per guardarsi dentro

Erano trascorsi troppi anni e Ingwer ricorda che quel senso di “appartenenza” lo aveva alimentato i primi tempi, quando stavano tutti e tre insieme, ma ora Kiel restava «un muro invisibile che lo separava dagli altri due». Tornare a casa, prendersi il tempo per guardarsi dentro, per frugare e mettere ordine fra i propri desideri, capire quanto di questo Ingwer sia stato messo da parte, si sia dissolto nel tempo, sia ancora possibile recuperare. Perchè Ingwer vuole tornare a parlare con se stesso, vuole tornare a desiderare oltre ogni cosa. Insenature prodotte da sabbia e vento, Dörte Hansen tratteggia un ritratto fugace di una famiglia interrotta e priva di parole. Con uno stile che mutua dal paesaggio il mordente e la voracità degli spazi, racconta un ritorno a casa che distrugge la pace dei sogni, che allontana quelle atmosfere infantili, sfidando i suoi personaggi sul piano della sincerità: possiamo essere diversi da ciò che siamo stati? Se l’autrice chiede a Ingwer un tempo del ritorno, sa che l’uomo dovrà, prima di ogni cosa, trovare il tempo del perdono, per riprendere quel cammino che dura da quarantotto anni.

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