Barone, un uomo tradotto dallo sguardo di una figlia

“Città sommersa” di Marta Barone – libro che ha vinto il premio Vittorini – è un viaggio a ritroso che l’autrice fa nel proprio passato: ricostruisce la storia di suo padre e quella di Torino, fra gli anni Sessanta e Settanta, vicende che si intrecciano indissolubilmente, per via di ferite indelebili: il carcere, i movimenti politici, la lotta armata, le proteste operaie…

Marta è una figlia. Ha avuto una famiglia e un’infanzia bizzarra e felice. È cresciuta in «una foresta di adulti», quasi nessuno dei quali aveva legami di sangue con lei.

I suoi genitori nel giro di pochi anni si separano e con suo padre resta un rapporto difficile, dice che di lui non sa granché, che non assomigliava a nessun adulto che conoscesse, non somigliava a un genitore: «era senza regole, irresponsabile, irrazionale». Marta lascia Torino, si trasferisce a Milano, in una piccola casa, ed è qui che si confronta con la solitudine, una dimensione nuova, «come una cattedrale completamente vuota in cui ogni passo aveva un’eco sproporzionata».

Le carte del processo

La malattia le porta via suo padre e anche se alla fine Marta di lui sa poche cose, il ritrovamento di un documento, la memoria difensiva che l’avvocato di suo padre aveva presentato in Cassazione prima del terzo processo, l’accusa è di partecipazione a banda armata, apre una frattura. La morte di suo padre la ammutolisce, «come avulsa da questa cosa che succedeva al di fuori di me». Il pensiero si fa insistente. La vita schiva e pallida che aveva condotto dopo, quel padre che lei ha conosciuto, non le fa immaginare ciò che poteva essere accaduto nel suo passato. Si chiede perché non gliene avesse mai parlato, perché rifuggiva la sua stessa storia, chi era mio padre? si chiede Marta.

Le ricerche e i ricordi

Il contenuto del documento ritrovato le dà l’impulso per iniziare le ricerche, per ricostruire la vita di suo padre, incontrare chi lo aveva conosciuto. Lentamente un ritratto inizia a delinearsi e la figura di suo padre assume sempre di più tratti sconosciuti. Ciò che era accaduto a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, nella vita di suo padre, la militanza nell’estrema sinistra, i fatti accaduti in una città come Torino, in cui la Fabbrica aveva un ruolo centrale, sono un lento tormento per Marta. «Ne avevamo parlato un paio di volte, ma sempre in modo piuttosto sommario. Lui mi aveva detto che faceva il medico; che era stato arrestato con l’accusa di essere un terrorista; che gli altri medici dell’ospedale dove lavorava gli avevano voltato le spalle, e per questo non aveva più voluto tornare lì e aveva lasciato la professione; che alla fine era stato assolto con formula piena (io ero già nata da un anno); che non era mai stato un terrorista, e su questo continuavo a non fare nessuna fatica a credergli».

Per la prima volta mi accorgevo che stavo sollevando una pietra sotto cui fermentava un’oscurità molto più vasta di quanto forse ero disposta a sopportare.

La città tra misteri e magma interiore

C’è una città sommersa che man mano che il racconto di Marta prosegue, emerge sotto gli occhi di tutti. C’è una città che lei stessa riconosce a stento. Torino, la città in cui è cresciuta trasfigura le sue strade, la storia di quegli anni, e che coinvolgono suo padre. «Non avrei saputo dire di preciso che cosa fosse successo, ma nei giorni seguenti continuai a sentire il cambiamento che mi accompagnava, impercettibile ma decisivo; era nel modo in cui guardavo la città, in cui alcune cose mi tornavano alla memoria; brandelli di conversazione, espressioni dimenticate, un tono di voce. Persino piazza Vittorio, la grande piazza accanto alla quale avevo abitato per tutta la vita e che conoscevo palmo a palmo, la piazza chiara, dura e geometrica che si spalancava sul ponte e il fiume e la collina, quando vi scesi il giorno dopo e la guardai, vuota di gente, quasi trasparente nella luce di vetro invernale, mi sembrò lunare e remota come il segno di un mistero». Ma la città sommersa è anche un magma interiore che si crede sopito e invece è pronto ad esplodere. Ricostruisce la storia di suo padre, parallelamente la storia della sua città, che si intrecciano indissolubilmente, ricostruisce quella ferita indelebile che il carcere, i movimenti politici, la lotta armata, le proteste operaie che ha definito i contorni di Torino.

L’esistenza? Una traduzione

Città sommersa (304 pagine, 18 euro) di Marta Barone, edito da Bompiani, è un romanzo aspro, ostinato, un’onda di piena impossibile da evitare. La scrittura di Marta Barone – che con questo esordio si è aggiudicata il premio Vittorini – ricostruisce un’atmosfera sottile, dall’aria rarefatta come quando si sale in quota. La storia di un uomo che forse non ha smesso di sognare e che nei mille tasselli in cui la sua storia si è persa, ha ritrovato, definitivamente, lo sguardo di una figlia. È un romanzo denso di ricordi, di libri, di citazioni, di canzoni che ci riportano alla sua storia. Una sua amica francese, Valérie, un giorno le disse: «In un certo senso tutta la nostra esistenza è una traduzione tra quello che cerchiamo di dire e quello che poi riusciamo a dire davvero». Padre e figlia hanno in comune un unico linguaggio: i miti greci e il mare. “Era un sentimento profondo e straziante e indefinibile. Partivamo per lunghe spedizioni in cui quasi non ci scambiavamo parola. Sentivo solo il suo respiro nel boccaglio, e il mio, più affannoso. Mi insegnò a pulire la maschera con lo sputo quando si appannava. Ci spingevamo dove non c’era nessuno, tra gli scogli oltre i promontori e ancora più al largo. Il mondo sotto la superficie era allora soltanto nostro, quel mondo al tempo stesso vivo e spettrale. […] I raggi del sole che tagliavano l’acqua in diagonale e proiettavano losanghe tremolanti sul fondo. Il blu cupo e senza fine che si apriva davanti agli occhi quando guardavo in avanti, verso il mare aperto. Quella fatica era una fatica felice. Quando dopo aver fatto un lungo giro, crollavo sulla battigia, esausta, piena, i capelli bagnati che mi penzolavano sulla faccia, e lui mi accarezzava e mi sorrideva con fierezza, mi sentivo bene, sentivo qualcosa che somigliava all’amore”. Di traduzione, alla fine, Marta Barone ne ha fatto un mestiere, una certa dimestichezza coltivata nel tempo e che ha a che fare con la traduzione dei sentimenti, la traduzione di fotografie sgranate, e la traduzione di ricordi ai quali manca sempre un dettaglio, anche se appaiono così nitidi. C’è tutto in Città sommersa di Marta Barone, tutto questo e infine, l’ammissione di aver trovato in sé, radici e appartenenze.

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