Non solo jazz, Leveratto incanta anche con un romanzo

Un intenso colto noir musicale. Ecco cosa è “Il silenzio alla fine” di Pietro Leveratto, contrabbassista di jazz che esordisce nel romanzo. Nella New York degli anni Trenta due famosi direttori d’orchestra rivaleggiano e uno dei due è rapito…

New York. Inizio 1932. L’ouverture e il finale sono in Florida nel 1966, ad aprile e qualche mese dopo, due soli personaggi, l’anziano dottor Goe e il perfetto maggiordomo nero Clarence. La vicenda si svolge però tutta a New York, dove nel febbraio 1932 arriva in nave (da Napoli) la 47enne camicia nera antemarcia Gaspare Tiralongo, già siciliano di campagna, che frequenta il circolo dei camerati Mario Morgantini, si affida al simpatico biondo chiacchierone trentenne bootlegger Joe Cusumano e ogni venerdì invia a Roma resoconti circostanziati (che nessuno legge). Vi si trovano anche il direttore d’orchestra austriaco David Weissberg, alto e corpulento, geniale riservato scontroso, e il suo poco più vecchio avvocato tedesco, caro amico e collaboratore tuttofare Bruno Göetz, magro e di bassa statura, accomodante e competente, gran scrittore di diario cui confida anche un’omosessualità mai dichiarata né praticata.

Una storia metropolitana criminale

Gaspare aveva conosciuto bene Benito Mussolini vent’anni prima in Svizzera, dopo innumerevoli tentativi di farsi leggere e ascoltare da lui, il duce decide di inviarlo a una generica missione negli Stati Uniti, giusto per levarselo di torno. David era stato fino a poco tempo prima il Direttore del Metropolitan Opera House, sempre accompagnato e “gestito” da Bruno; ora il nuovo maestro è un italiano libertino e altrettanto geniale, Andrea Bergallo, socialista dichiarato e antifascista emigrato in America Latina. Weissberg e Bergallo sono i direttori d’orchestra più famosi della loro epoca, rivali (anche per una breve tresca del secondo con la moglie del primo) ma accomunati dall’età e dal repertorio d’elezione. Ad aprile Gaspare ha la bella pensata di far rapire Andrea per fargli rimangiare le continue offese al regime e al Duce e comincia un’altra storia metropolitana criminale che in vario modo coinvolge tutti quelli e altri figuri. Nemmeno la mafia può stare a guardare.

Stile, ritmo e documentazione

Il grande musicista Pietro Leveratto (Genova, 1959), contrabbassista di jazz, compositore, arrangiatore, docente al Conservatorio di Roma, all’esordio nel romanzo, con Il silenzio alla fine (306 pagine, 15 euro) per Sellerio, non poteva che scrivere un intenso colto noir musicale. Gli è riuscito bene, anche perché ha scelto la documentazione storica di contesto ambientale e sociale, per quanto senza nessun personaggio reale: il testo ha stile e ritmo, i silenzi al punto giusto (da cui il titolo). La narrazione è in terza persona varia, tutti i venticinque capitoli hanno un’intestazione che richiama partiture di classica e libretti di composizioni, nel cuore della vicenda perdono l’andamento cronologico per seguire i fili di pensieri e gli eventi, paralleli e intrecciati, dei protagonisti, nel contesto frenetico di New York, con lo sfondo delle politiche convulse nelle patrie di ciascuno. Il manager teatrale, anch’egli di origini italiane, appare convinto che i cantanti siano ancor più folli dei direttori e l’intero testo risulta una voce da dentro rispetto alla storia dei generi musicali e delle relative relazioni sociali negli ultimi due secoli. Né mancano accurati resoconti sulle dinamiche razziali dei tempi andati (e presenti) con il vecchio caso dei mozzarellanigger a New Orleans. Fra l’altro, poliziotti e federali sono distratti perché proprio quello era il periodo in cui tutta l’America si trovava in ansia per la sorte del piccolo Charles Augustus Lindbergh jr., poi trovato ucciso, come noto. Si beveva molto, nonostante (o forse grazie a) il proibizionismo, pure bordeaux e Bollinger. Musica per tutti i gusti, con l’interessante crescente motivata centralità dello swing.

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