Lispector e la felicità, quella cosa clandestina…

Nel centenario della nascita di Clarice Lispector, un ritratto non convenzionale della stupefacente scrittrice brasiliana: la sua vita, la sua opera, la sua libertà. Un nuovo contributo da Lusoteca. Non ci si può nascondere agli occhi della Lispector, che di volta in volta regala nelle sue pagine un’epifania: quando un oggetto, una persona perde improvvisamente la sua familiarità e si rivela con un aspetto altro e sconosciuto, senza una ragione apparente, che ci stupisce, ci incanta e ci inquieta allo stesso tempo

Se mi chiedessero oggi come mi sono avvicinata all’opera di Clarice Lispector non saprei rispondere. Conosco questa autrice da quasi dieci anni ma le circostanze favorevoli che hanno permesso il nostro incontro, un incontro che mi piace immaginare con la vividezza di un faccia a faccia, possiedono ora i contorni sfumati che solo una familiarità rassicurante è in grado di evocare. Come quando ci soffermiamo in un luogo e improvvisamente percepiamo una naturale intimità con gli spazi che ci circondano e con grande meraviglia prendiamo a poco a poco consapevolezza di un fatto eccezionale: quel luogo ci stava aspettando. Non ci si può nascondere agli occhi di Clarice Lispector: quando ti trovano non rimane che farsi trascinare nell’abisso cosmico ed esistenziale che solo lei riesce a cogliere negli interstizi del reale. Oggi, nel centenario della nascita, voglio ricordarla, e raccontarvela, con la citazione a me più cara: «La felicità è clandestina».

L’incontro dell’io

Immaginate una quattordicenne che presenta all’editore di un giornale un racconto di una qualità tale da meritare l’immediata pubblicazione, dichiarando di averlo scritto di proprio pugno. Immaginate l’incredulità di quest’uomo, che deve accertarsi che la ragazzina non abbia copiato l’opera di un altro: questa è la forza di una giovanissima Clarice e l’inizio di una brillante carriera letteraria. Giornalista durante gli anni universitari, nel 1943 debutta con il romanzo Vicino al cuore selvaggio, che un critico elogia come «il più grande romanzo che una donna abbia mai scritto in lingua portoghese». Lo stile non ha di certo precedenti: con una libertà sconfinata la Lispector piega il linguaggio ad una introspezione interiore dove la parola tenta di attribuire un senso ad un’autoanalisi che vuole comprendere il senso dell’esistente. Questi i temi centrali di tutta l’opera dell’autrice, che sorpassa la convenzionale necessità di un intreccio o di una trama elaborata: quello che accade all’interno dei romanzi e dei racconti di questa scrittrice formidabile, e i lettori affezionati della Lispector lo sanno bene, è un incontro dell’io con sé stesso e la propria corporeità e il confronto/scontro con l’altro reso quasi sempre attraverso una tecnica dialogica.

Le rivelazioni della quotidianità

Laureata in giurisprudenza, scrive e inventa storia fin da bambina e afferma di essere rimasta profondamente colpita, durante la sua precoce formazione letteraria, da Fedor Dostoevskij e Herman Hesse. L’infanzia trascorsa in Pernambuco, uno stato molto povero nel nord-est del
Brasile, la morte prematura della madre quando Clarice aveva appena nove anni, il contatto ravvicinato con esperienze di «miseria anonima» marcano profondamente la sua esistenza e il suo sguardo letterario, che rivolge con frequenza e fermezza verso la periferia della città e le classi meno abbienti, nonostante l’agiatezza che il matrimonio con un diplomatico brasiliano le assicura. Il benessere economico, infatti, non la distoglie dal condurre una vita semplice e gli amici più stretti raccontano di come si occupasse quotidianamente dei mestieri di casa e della cura dei figli, anche durante i lunghi periodi di scrittura. Ed è proprio in una quotidianità banale e scontata in cui sono immersi i protagonisti e le protagoniste di molti suoi scritti e in cui accade l’epifania, quella rivelazione inaspettata che è il fulcro di tutta la materia lispectoriana: ovvero quel momento di verità grazie al quale una situazione, un oggetto, una persona perde improvvisamente la sua familiarità e si rivela con un aspetto altro e sconosciuto, senza una ragione apparente, che ci stupisce, ci incanta e ci inquieta allo stesso tempo.

Una scrittrice libera

Questo suo modo di raccontare le garantisce in breve tempo una solida fama, destinata a crescere col tempo tanto che oggi è annoverata tra i grandi classici della letteratura brasiliana. Eppure la grande popolarità non scalfisce quell’aura di ricercatezza ed eleganza che si associa alla sua prosa e che tutt’ora è considerata il simbolo di un gusto letterario che si distingue per raffinatezza. Clarice Lispector spiegava che la sua tecnica di scrittura consisteva nell’annotare delle frasi a mano a mano che queste affioravano durante le attività quotidiane, assecondando quel flusso di coscienza che caratterizza il suo stile. Curioso il fatto che Clarice si sia sempre definita come una scrittrice amatoriale e non di professione, sostenendo di non voler assumere obblighi né verso gli editori né verso se stessa per proteggere la sua libertà creativa. Una libertà, quella della scrittura, che la Lispector coltiva nella sua vita di tutti i giorni, coniugando aspirazioni professionali e vita domestica.

L’eredità di Clarice

Un cancro all’utero scoperto troppo tardi causa una morte improvvisa ad una distanza di poco più di un mese dalla diagnosi. Ma Clarice rimane immortale nei ritratti e nei volti di una folla di personaggi senza nome, portatori di storie che appartengono a tutti e in ogni tempo, una “legione” di persone incomprese dai più e che difficilmente si adattano nei contesti in cui si ritrovano a vivere, uomini ma sopratutto donne che osano essere liberi. Perché la felicità è clandestina.

Un consiglio di lettura

Non potevamo concludere questo omaggio alla grande scrittrice brasiliana senza consigliarvi una lettura. Il libro che Lusoteca vi propone è Un apprendistato o il libro dei piaceri, pubblicato da Feltrinelli. Si tratta di un’opera peculiare e meno nota rispetto ai grandi successi di Legami familiari e La passione secondo G.H. e che presenta una struttura narrativa dialogica, non incentrata esclusivamente sulla vita interiore di una narratrice. La traduttrice Rita Desti, nella sua introduzione al libro scrive:

Un apprendistato è un libro che va letto lentamente: solo così, infatti, se ne potranno cogliere, al di là dei motivi narrativi, quasi assenti, le sfumature di immagini e significati che costituiscono la struttura portante di questa “escrita”, di questa scrittura in forma di romanzo.

Questo libro va infatti gustato lentamente, pagina dopo pagina, perché il lettore apprende progressivamente le mappe di una nuova sensibilità. Una donna di nome Lori, che si trascina in un’esistenza passiva dove il «far finta di vivere» diventa normativo, inizia a frequentare un uomo di nome Ulisse il quale, seppur provando una forte attrazione nei confronti della donna, rimanda l’occasione di un contatto più intimo al momento in cui questa dimostri di aver acquisito una sufficiente maturità. La protagonista inizia quindi un’autoanalisi, un apprendistato che pone al vaglio le emozioni suscitate da queste intense conversazioni sull’esistenza, sul senso dell’esistere, sull’amore e sulla paura di essere amata, sul coraggio di continuare a vivere con i “nonostante” del nostro quotidiano. Un piacere dei sensi e della mente, con un gran finale.

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