Simic, la poesia raccoglie i cocci tra le rovine

“Avvicinati e ascolta” è la più recente raccolta poetica di Charles Simic, statunitense di origine serba. Tra versi con continui capovolgimenti, sintattici e semantici, che tengono sempre il lettore sul chi va là, e ironia che smorza il dramma e l’assurdo…

Un gran bel titolo, non c’è che dire, di quelli accattivanti; e sorprendente il suo contenuto. Non si smentisce neanche stavolta il poeta statunitense di origine serba Charles Simic (classe 1938), in grado di stupirci ancora con la sua ultima raccolta, Avvicinati e ascolta (181 pagine, 16 euro) edita in Italia da Edizioni Tlon (2020), tradotta da Moria Egan e Damiano Abeni. Riceviamo il volumetto che si presenta in un formato elegante quanto pratico, e ci addentriamo nel magico mondo dell’autore, un’intricata foresta metropolitana piena di simboli e di trabocchetti, a metà strada tra la periferia di Chicago e quella di Gotham City.

Gioco di scambi tra vista e udito

Continui capovolgimenti, sintattici e semantici, tengono sempre il lettore sul chi va là. Già il titolo, che richiama l’attenzione del senso uditivo, cozza con l’esergo scelto per l’apertura: «come se servissero gli occhi per vedere» (un verso dell’eclettico scrittore R. Waldo Emerson, che ci ricorda una ben più nota citazione di Antoine de Saint-Exupèry). La parte iniziale della raccolta, le prime quattro liriche, è costruita su questo gioco di scambi tra la vista e l’udito. La prima, Alcuni uccelli cinguettano, rimanda al verbo degli uccelli e alla loro ancestrale sapienza, che qui però è tutta umana e quindi comprende la partecipazione alla follia degli umani: “Dev’essere qualcosa di enorme/ che li fa uscire di senno-/ la vita in generale, l’esser uccelli” (p.23). La loro virtù di volatili consiste soltanto nella poesia, la sola in grado di trasformare in canto ciò che altrimenti sarebbe semplice starnazzare, gracchiare collettivo e fastidioso. Gli uccelli sono tali anche per il silenzio che sa ascoltare e riconoscere la poesia (cfr. Uccelli al crepuscolo, p.155). Proseguendo, la seconda lirica s’intitola Nascondino, e chiaramente strizza l’occhio alla vista… ovvero al tempo, che ci nasconde con la sua ombra (di morte: Time-that murderer/ No one has caught yet, p.145); la terza invece è Destino cieco, e serve quasi da preludio alla successiva, che porta lo stesso titolo del libro:

 

Sono nato – non so a che ora –

mi hanno dato una pacca sul sedere

e mi hanno passato in lacrime

a un morto da parecchi anni, in una nazione

che non è più sulle carte geografiche,

 

dove come una foglia su un albero,

la bella stagione finita,

ho vorticato cadendo a terra

quasi senza far rumore

perché il vento mi portasse lontano

 

benedetto o maledetto-chi può dirlo?

Non me ne preoccupo più

dato che ho sentito parlare

di una signora cieca chiamata Giustizia

disposta ad ascoltare i problemi di chiunque,

ma non so dove trovarla

 

per chiederle il motivo

per cui il mondo certi giorni mi tratta bene

altri giorni male. Comunque mai e poi mai

sarei il primo a darle contro.

Cieca com’è, poveretta,

se la cava meglio che può.

 

Un realismo magico onirico

C’è davvero tanto dell’autore, sia in termini biografici che di poetica, compresa la grande ironia capace di smorzare il dramma e l’assurdo. Questa poesia davvero è una sintesi tematica del libro; la seconda strofa ad esempio è un inno lieve al Caso, e pare quasi la riproposizione della scena finale del film Forrest Gump (lì una piuma, ma la visione è la stessa). Il brano va a congiungere il tema della vista e dell’udito, e lo fa operando uno di quei capovolgimenti tipici della sua tecnica: non è il lettore, che narcisisticamente si sentiva ammiccato dal titolo, ad essere invitato all’ascolto; bensì quella cieca signora che è Giustizia (malgrado il sarcasmo, il tenore è diverso rispetto a Carl Hamblin di Edgar Lee master). L’autore dunque si è fatto beffe di noi, ma non abbiamo il tempo per accusarlo, giacché egli ci ha trascinato nel cuore del dramma dell’umanità intera. D’altro canto, se lui alla fine non accusa Dìke, possiamo perdonarlo pure noi, anche per i tranelli successivi.

La poetica di Simic sembra una versione dark del realismo magico, onirico direi, visto le continue inversioni tra sogno/incubi e realtà. Egli vede salpare la sua vita come sull’Olandese volante, la celebre Nave fantasma (lirica p.175, la penultima e a mio avviso una delle più belle); mi ricorda pure l’investigatore de Il mistero di Sleepy Hollow, per le sue atmosfere notturne, insonni (come la sua raccolta forse più nota in Italia, Hotel Insonnia, edita da Adelphi nel 2002). Per farsi un’idea basta elencare il bestiario da lui utilizzato nel testo: gufi, rospi, ratti, gatti neri, sciacalli, serpenti, mucche pazze e molto altro:

 

Ho visto un banchetto servito

su una tavolata

a cui sono convenuti solo i corvi

Ho visto un cane continuare

ad abbaiare come un antico profeta

Ho visto topini e pantegane

fuggire terrorizzati

lungo labirinti

preannunciando

i malefìci prossimi venturi (“the evils to come” il verso originale, cfr. Terrore, p.67)

 

Ciononostante, gli unici veri Mostri sono quelle scimmie urlanti che Zeus plasmò incerto, accorgendosi infine che

 

(…) andando dalla A alla Z nel Bestiario

non riuscì a trovare una sola specie

che uguagliasse l’immensa capacità di far male

di queste orribili creature,

nemmeno tra i ragni mortiferi

o tra i vermi dei cimiteri

che non hanno colpa per quello che fanno (p.90).

 

Una continua lotta contro il Nulla

Il simbolismo dell’autore è molto particolare: nessun esito metafisico, solo una continua lotta contro il Nulla: l’ultima lezione/ sarà sul niente./ Non sull’amore né su Dio,/ ma sul niente” (p.105). La domanda religiosa c’è, sarebbe lecita, ma il cielo stellato si fa grasse risate silenziose (p.59) prima che i nostri pensieri vengano trattati come venditori ambulanti di Bibbie che si trovano solo porte sbattute in faccia (p.99). Un’horror vacui soggiace in quasi tutte le poesie, ed i versi hanno una tensione che ricorda il tremore della terra prima di un’eruzione nichilista che viene costantemente rimandata. La poesia ci mette una pezza insomma, raccoglie i cocci tra le rovine (cfr. p.71, p.129), tende un filo sopra la voragine e ivi camminiamo in equilibrio precario, anche se, nella migliore delle ipotesi, gli uomini sono “like a scarecraw in a squall” (p.39). Mentre la natura appare come una splendida cornice, neutra e discreta che talvolta cerca di comunicare con noi, è decisamente l’uomo l’elemento demoniaco del creato, di fronte al quale le foglie cadono dagli alberi mute e sgomente (C’è qualcosa di malefico là fuori, p.63). Degli uomini dunque nessuno si salva? In verità ci sarebbero delle figure di bontà nel mondo, ma vengono ignorate o derise da tutti. C’è una particolare tipologia di ultimi che Simic racconta nel loro procedere controcorrente, gli anziani. In particolare segnalo Storia greca (p.75). Sullo sfondo, una tragedia di migranti assiepati nel loro dolore prima ancora che loro nave affondi; il cielo non sente le grida/ di quelli che affogano ma io sì – dice una vecchina, chiedendo in giro dove posso cucinare qualcosa per queste persone.

 

E i morti arenati sulla sponda

spalancavano gli occhi come bambini

destati di colpo da un brutto sogno

e si accalcavano a baciarle la mano.

Brindare alla vita, nonostante tutto

Infine, vale pena spendere due parole per la struttura del libro, diviso in quattro sezioni/tempi (efficace la scelta di non mettere nell’indice i titoli dei brani) che in realtà sono due atti: nel primo si assiste ad una furiosa discesa verso gli inferi dell’uomo e verso la terribile vuotaggine di cui è capace il suo cuore. Le terza e la quarta sezione non rappresentano affatto una simmetrica risalita; semplicemente, l’autore tira il fiato, sfrutta anche situazioni banali per meditare su ciò che resta della vita mentre la canalina di scolo porta via l’acqua della tempesta appena calmatasi (p.109). Simic cerca occasioni di ristoro, come pause fugaci fra l’assurdo trambusto quotidiano. Tra tutte, è il desiderio degli amanti che lo rasserena, egli conosce bene il potere analgesico che può avere sulla vita degli uomini. Nessun idealismo: come cavolo avrà fatto Petrarca a scrivere tutte quelle poesie per una sola Laura? (p.123); una paradossale invidia invece per la serenità di certe coppie di anziani in grado di “vivere nell’assoluta ignoranza/ di ciò che succede al mondo” (sleepwalkers in love li chiama, p.141). Per quanto lo riguarda, egli sa trovare rifugio a tarda ora nei suoi club midnight, suonando i diesis della vita tra luci soffuse, cicche di sigarette fumanti e donne pensose nei bicchieri (p.133). Ma prima di congedarsi, l’autore c’invita ad un ultimo picnic insieme (il brano finale). Prima che la pioggia ritorni, mentre l’erba è ancora verde, sediamoci, mangiamo e brindiamo alla vita nonostante tutto, alla faccia dei corvi che ci osservano.

 

Se verrà il freddo – com’è certo – ti stringerò a me.

La notte scenderà presto.

Scruteremo il cielo sperando che la luna piena

ci illumini il cammino.

 

Arriva alla fine quasi insperato, l’utilizzo del verbo sperare. Simic ha ancora fiducia nella possibilità dell’uomo di scrutare il cielo, e che la luce (sia pure quella lunare) non sia più soltanto qualcosa che lo giudica e condanna, mostrandogli gli abomini di cui è capace.

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