Le casualità decisive, Oggero tra l’ospedale e la baita

Un senso d’appagamento raro regala la lettura de “Il gioco delle ultime volte” di Margherita Oggero, una doppia storia annodata. Protagonisti una ragazza vittima di un incidente e in fin di vita e il medico che la accoglie al pronto soccorso, scosso per tutto il weekend trascorso con moglie e amici. Un abilissimo intreccio di voci, linee di tensione che si sovraccaricano e il congegno del destino che accende tutte le incognite del possibile

Non si gioca con il fuoco: la morale delle storie che Margherita Oggero intreccia con maestria nel suo nuovo romanzo per Einaudi, Il gioco delle ultime volte (176 pagine, 18 euro), potrebbe banalmente essere questa. Niente di più scorretto per un’autrice che nel suo nuovo romanzo allestisce una vicenda quasi teatrale confrontandosi – e facendo scontrare i personaggi – con le domande e gli interrogativi scaturiti da scarti del destino avvenuti con leggerezza, quasi “per gioco”. Ale, adolescente finita sotto un tram e in fin di vita, Nicola, medico del pronto soccorso che la accoglie, disperata, e dalla cui immagine resta scosso durante tutto il weekend in baita con la moglie e coppie di amici. Due poli, due storie, due universi di affetti, relazioni e vite che ruotano intorno ad altre vite, scosse da avvenimenti in reciprocità, mai totalmente pronte a scartare davanti alla fatalità, apparentemente inconsapevoli dei giochi della mente umana.

Il gioco delle voci

Non è solo la storia di Alessandra, detta Ale, né di Nicola, quella de Il gioco delle ultime volte. È un libro corale composto da tasselli e storie, da voci e personaggi tra cui Margherita Oggero conduce un abilissimo intreccio di voci che scivolano dal discorso diretto all’indiretto libero creando pensieri e dialoghi in cui ritrovarsi e ricostruire intere esistenze e relazioni. Il lettore insegue i personaggi: entra nella testa di ciascuno, e di ciascuno conosce il lato segreto e la faccia pubblica, le parole dette e quelle tenute nascoste. Lo sguardo della narratrice è impegnato a cogliere le relazioni esterne, lo sguardo “degli altri”, ma lo abbandona in un viavai costante per ritirarsi nella dimensione intima e privata dei pensieri. È una tecnica che la Oggero fa propria con maestria, dando così spazio a un tema che aveva già sviluppato in uno dei romanzi gialli della serie con Camilla Baudino, la prof detective, Qualcosa da tenere per sé: ci sono cose che è bene dire, altre che è meglio tenere nascoste; aspetti che si possono sviscerare, altri che le persone scelgono di conservare solo nei propri pensieri. Al narratore indagare quali, e perché.

A Chamois, sedute intorno al tavolo sul terrazzino di una baita, non considerando Sheila ci sono sette persone con un notevole bagaglio di esperienze e la conseguente perizia nel nascondere sotto la superficie dell’urbanità i turbamenti provocati da emozioni impreviste. Quasi sempre, per fortuna, ma talvolta l’abitudine non basta.

Sensi di colpa, esiti nefasti di rapporti, retaggi educativi, desideri e deviazioni, disagi e fastidi: tra i frequentatori della baita, così come tra i personaggi che fanno avanti e indietro dall’ospedale, si tende un arco di emozioni esteso dentro il quale la Oggero scava senza mai giudizio ma, al contrario, con umanità vastissima. È grazie alla trama delle voci e punti di vista e, insieme, grazie a questa immersione nell’umano che di ogni personaggio del romanzo conosciamo lati limpidi assolati e facce più oscure e irrisolte. Una benzina per il motore narrativo, sapiente sguardo sul mondo e altrettanto saggia resa in forma di narrativa che fa socchiudere il libro dopo l’ultima pagina con un senso di appagamento raro, screziato da tanti pensieri, noccioli di riflessioni pronte da rimettere in circolo fuori dalla carta, nella vita vera.

Perché non facciamo il gioco delle ultime volte?

Lo domanda una delle giovani protagoniste durante il weekend in baita a Chamois, Valle d’Aosta, paese di montagna raggiungibile solo in funivia. Un luogo isolato dove ritrovarsi durante una tempesta di neve, spazio ideale dove accogliere i nodi arrivati al pettine, aspettando che accada qualcosa, che il movimento principale della storia prenda forma. Ha un che di teatrale la scelta di isolare le tante voci di questo romanzo – o almeno di una delle sue storie principali – in un luogo chiuso, una scelta capace di forzare gli sviluppi nati da una convivenza forzata, e dall’inaspettato incontro-scontro con una realtà del passato infilata a forza nel dimenticatoio.

Centrale, non a caso, è l’invito a fare il gioco delle ultime volte, un esercizio di teatro nato per sondare l’introspezione, ma che in realtà si inserisce nella vischiosa trama di chiari e scuri che ciascun personaggio cova dentro sé. E così, ingannatore, il linguaggio mistifica ricordi e finzioni restituendo narrazioni ibride: nessuno sa qual è la verità, nessuno vuole forse armarsi del necessario coraggio e fare la fatica di trovarla. Si sommano le voci e i pensieri in una commedia venata di noir, e così mentre a Torino una giovane vita lotta contro la morte in ospedale e intorno a lei si costruiscono e disfano esistenze, affetti e amori, nella baita valdostana sembra non accadere quasi nulla mentre in realtà linee di tensione si sovraccaricano in tanti dei diversi rapporti tra i personaggi, fino a fare luce.

La smagliatura del tessuto

«Nel tessuto di un ordinario venerdì compare una smagliatura, anzi un buco bello grosso»: è l’avvio del romanzo, la rottura di un equilibrio, un inciampo nel cammino regolare di tante vite che, all’improvviso, sfiorandosi si urtano, vacillano, cadono, sono stravolte o solo minimamente toccate dall’incidente del tram. La realtà scossa senza preavviso dal destino imprevedibile, o forse solo l’assurda messa in moto di finte casualità generata da un gioco adolescenziale? Sembra volerci far riflettere su questo tema la scelta di Margherita Oggero: sulla casualità delle nostre esistenze pigramente accomodate su faglie in movimento, adagiate su scuse utili, conformate all’esito di giochi di vendetta che, apparentemente sciocchi e inutili, arrivano a compromettere esistenze intere.

Certe cose accadono senza che ci siano colpe, le vite di tante persone s’incrociano a casaccio, per strada, su un treno, in un’aula universitaria, in coda alla posta, in discoteca, a un concerto, e milioni di volte tutto resta come prima o quasi, ma ogni tanto il meccanismo s’inceppa e succede che nell’asfalto c’è una voragine, che il treno deraglia, che un soffitto crolla, che dei cretini spruzzano lo spray al peperoncino.

Quanto è il fato, a creare imprevisti e situazioni, e quando siamo invece noi umani a generare movimenti e scrivere trame? Il caso, ed è la riflessione racchiusa nel cuore di questa doppia storia annodata da una drammatica fatalità forse non tale, trama un po’ da sé, un po’ istigato da leggerezze nefaste guidate, più che da distrazioni o mancanze, da scatti di volontà a cui piace giocare con il fuoco. Ma niente resta immobile una volta avviato il gioco: come un domino ben avviato, il congegno del destino fa cascare pezzi, altri ne travolge, dimentica il passato finché, tornato casualità incontrollabile, fa sfiorare esistenze, accadere cose, innescare storie maneggiando abilmente «tutte le incognite del possibile».

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