Pratolini, la gioventù e certi dolori che resistono alle parole

I luoghi sono identità, come il Quartiere dell’omonimo romanzo di Vasco Pratolini. I giovani che lo abitano crescono e hanno speranze e desideri per un futuro che, con la seconda guerra mondiale alle porte, ha contorni caotici. È un ritratto commovente, quello di Pratolini, delicato, di ciò che sembrava possibile e invece è evanescente…

L’identità è fatta di luoghi, di appartenenze, di quartieri in cui prende forma e sostanza. Non a caso ogni viaggio è intriso di una certa nostalgia, e i traslochi, quando sono definitivi, hanno il senso di uno strappo, di un esilio. I luoghi ci posseggono perché hanno accolto le nostre prime volte, gli addii, le titubanze della nostra adolescenza impreparata e il silenzio dei lutti. Non è possibile pensarsi se non all’interno di un paesaggio ben definito, perché è lo sfondo che dà senso al tutto – e allora il primo bacio ha il rumore delle macchine che sfrecciavano, lungo quella strada isolata; la maturità ha i contorni del piazzale bianco dove, una notte di giugno, abbiamo cantato a squarciagola Antonello Venditti. È così anche ne Il quartiere (178 pagine, 11 euro) di Vasco Pratolini, un romanzo del 1957 (adesso nel catalogo Bur) che Pietro Pancrazi recensì come «uno di quei suggestivi libri che si scrivono (chi li scrive) a un solo punto della vita: quando ci si è staccati dalla giovinezza, ma non se ne è perso tutto l’umore».

Un rione popolare tra rumori e dettagli

Il quartiere è uno dei rioni della Firenze del 1935: «panni alle finestre, donne discinte. Ma anche povertà patita con orgoglio, affetti difesi con i denti. Operai, e più propriamente, falegnami, calzolai, maniscalchi, meccanici, mosaicisti. E bettole, botteghe affumicate e lucenti, caffè novecento. La strada. Firenze. Quartiere Santa Croce». Di queste strade Pratolini descrive ogni rumore, ogni dettaglio – le grida del venditore del pane fresco, lo scroscio dell’acqua, i fasci di mimose, il ronzio della segheria e la lapide che ricordava l’abitazione di Giacomo Leopardi. È qui che abitano Maria, Giorgio, Valerio, Luciana, Marisa, e poi Carlo, Olga, Renzino, mille altri. Sono giovani, hanno ancora tutta una vita da scoprire, e noi li osserviamo nascosti dietro ai cipressi, mentre si baciano, si raccontano le violenze subite, i silenzi a cui sono stati costretti, le speranze per questo futuro che ormai acquisisce contorni sempre più caotici. La guerra è alle porte: qualcuno partirà, abbagliato da un’illusione; molti altri resteranno, attaccati a questa terra come ad una radice vitale: «In questa nostra confusa volontà di precluderci mentalmente altre strade e piazze che non siano di Quartiere, ci prepariamo ad una inconscia difesa verso qualcosa che è al di là e ci ha tradito».

Ragazzi che diventano adulti

In questo romanzo la crescita porta il segno dei calzoni che coprono le ginocchia, del vestito elegante con cui si sfila per le vie; di una separazione – necessaria, ineluttabile – che a volte cambia di senso e diventa ritorno, eterno ritorno alla casa, al paese, agli amici di un tempo che forse intanto sono cambiati, ma forse, invece, sono gli stessi di sempre. La penna indugia, mentre questi ragazzi diventano adulti; cerca di trattenerli a sé per trattenere ciò che essi rappresentano – l’ebbrezza delle notti giovani, la voluttà del desiderio, le incertezze nei rapporti che non hanno bisogno di definirsi. È un ritratto commovente, delicato, persino quando tocca certi dolori che resistono alle parole. Per un momento sembra quasi possibile il miracolo del viaggio nel tempo, del ritorno al passato tanto rimpianto. Poi, invece, arriva lo strappo, la fine di qualcosa: del quartiere, certo, ma anche della giovinezza, di ciò che avevamo creduto possibile e si è rivelato, al contrario, evanescente. Un amico muore, una strada viene distrutta – alla fine non restano che macerie, braci fumanti di un fuoco che ormai si è estinto e che pure, un giorno, ardeva con forza. Ci si saluta, ci si stringe più vicino: la memoria abbraccia il passato e lo cristallizza nella scrittura – l’unico monumentum destinato a restare per sempre.

E veramente siamo diversi. Coi ginocchi coperti o gli alti tacchi da donna, pensiamo di affrontare il mondo […] Diventare grandi crediamo sia questo soffrire in silenzio, parlare per allusioni o fare gesti che abbiamo visto fare […] Un giorno saremo ancora tutti assieme, seppure coi corpi consumati da contatti estranei. Ma i nostri corpi sono abituati a dormire su un materasso di foglie, a soffrire di geloni, si sono nutriti di cavolo e di lampredotto, come volete che ci faccia paura ritrovarci un po’ diversi in viso? Credete che non ci riconosceremo?

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