Entusiasta dell’ultima Ciabatti, ma sono una vigliacca e…

Per chi è innamorato di Teresa Ciabatti, il suo ultimo romanzo, “Sembrava bellezza” è geniale. Il lettore è tirato dentro con sfrontatezza dall’autrice che fa magheggi con gli elementi biografici e quelli di finzione in un riuscitissimo gioco delle tre carte nel quale chi scommette su quale sia l’uno e quale l’altro è destinato a perdere…

Ho letto un romanzo. Sembrava bellezza (240 pagine, 18 euro) di Teresa Ciabatti, edito da Mondadori. Bellissimo. Mi struggo dal desiderio di scriverne. Al principio desisto, dato che è tra i peggio recensiti di sempre e non sono a caccia di risse. Resto combattuta: ne voglio comunque parlare. Allora mi butto, ricorrendo al vecchio trucco che adopero con i quadri che mi hanno stancato ma che non oso dar via per ragioni affettive. Li metto bene in vista, piantati sulla parete principale di casa. Le cose, infatti, più sono a portata d’occhio e più lo sguardo non le percepisce. Affido a LuciaLibri il consiglio di lettura perché si perda tra le decine di pregevoli articoli dei miei colleghi. La pubblicazione sarà il foglio da regalo in cui incarto insieme, in un solo pacco, sia l’entusiasmo per il libro, sia la confessione della mia codardia a commentarlo.

Un certo modo di nascondersi

Un po’ come ha fatto l’autrice, Teresa Ciabatti (qui una nostra intervista), nella sua narrazione: nascondersi sapientemente sedendo – glitterata, strassata e ingioiellata di tutto punto – su un trono al centro di ogni riga per essere assorbita dalla scenografia e scomparire, finendo lei con l’osservare il lettore per antropologica curiosità, quasi facendosene beffe. Bravissima. Una scrittura flusso bulimico in cui dice e non tace, ma dice quando tace e tace quando dice. Amatissima o odiatissima nella vita reale – ne paga forse lo scotto nella parallela esistenza letteraria – non è una che viene percepita secondo mezze misure. Io la amo. L’ho letta nel romanzo che le ha regalato popolarità – La più amata – e là me ne sono innamorata. Un sentimento di ammirazione cresciuto poi vedendola dal vivo, nel candore recitativo dell’autentica sé stessa. Sovrabbondante nella sua maliziosa schiettezza. Geniale in questo ultimo romanzo.

Esercizio di stile liberatorio

A chi è corso a leggerla per puro spirito voyeuristico – incuriosito dalle confessioni disseminate nel testo precedente – si presenta al meglio e tiene botta. Pienamente matura. Adulta. Abbatte la quarta parete e tira dentro il lettore esplicitamente con sfrontatezza, chiamandolo per nome. Acrobata provetta, fa magheggi con gli elementi biografici e quelli di finzione in un riuscitissimo gioco delle tre carte nel quale chi scommette su quale sia l’uno e quale l’altro è destinato a perdere. Emancipata dalla sindrome di prima della classe per quanto riguarda il linguaggio che, spintosi ben oltre quello canonico da compitino di fine corso, abbottonato, bon ton e con tutte le virgole al posto giusto, si spaparanza invece in un ritmo caotico, spericolato, strappato, che si lascia cavalcare anche per il gusto di essere sballottolati con malagrazia di qua e di là, fregandosene del giudizio di chi sostiene sia solo pessima scrittura. L’applauso a fine rappresentazione – a fine lettura, pardon! – ci sta tutto, appunto perché la chiave del romanzo, del grande lavoro fatto, più che nella storia, che potrebbe perfino essere un mero pretesto se non fosse anche quella godibilissima, è proprio questo incredibile esercizio di stile liberatorio in cui si sublimano le altrettanto catartiche intime confessioni.

La sindrome dell’impostore

Sono una vigliacca matricolata, lo avevo anticipato, ma sono certa che adesso anche voi che leggete ne siete convinti. Che senso ha rinunciare a una recensione così entusiastica se non perché me la faccio sotto per il timore di essere giudicata? E se tu, lettore, concludi che non ci ho capito una mazza? Che la mia interpretazione sia tutta sbagliata e il mio commento una grande cantonata? La sindrome dell’impostore. Eh! Ci mancava anche lei a farmi mordere il freno. In questo momento affondo nelle sabbie mobili. Mi tocca inviare subito il pezzo alla redazione, prima che soccomba all’impulso di cestinarlo. No, ancora una postilla, per sottolineare che il romanzo è veramente un pozzo che va scandagliato a fondo!
Chiedo, dunque, l’ennesimo perdono. Come si evince, non ci sono deterrenti che funzionino contro la mia logorrea in tema di romanzi che mi piacciono.

Una madre e le colpe verso la figlia

Devo a chi correrà ad accaparrarselo sulla fiducia (ringrazio, la faccia mia sotto i piedi vostri, già sapete!), qualche altro dettaglio a giustificazione della mia euforia. Visto che tutto poi si riduce al personale, aggiungo qualcosa, non sulla scrittura bensì sul tema della storia. Chiarisco, o cerco di chiarire, le ragioni che personalmente mi hanno tirato dentro definitivamente e indotto all’identificazione. Interessante e per me importantissimo, il rovesciamento delle implicazioni psicologiche della maternità che Ciabatti realizza. La sua protagonista è una madre alla quale non importa più leggere le proprie disfunzioni caratteriali riconducendole alle lotte o alla inadeguatezze della propria madre (sono un dato di fatto assodato) ma che piuttosto indaga e attribuisce le proprie colpe verso la figlia, va a decodificare, cioè, le sue défaillance, le lacune, gli accanimenti, le psicosi, come ennesima proiezione delle sue debolezze.

“Terapizzare la figlia”

Il suo prototipo di madre, quella che lei incarna, è quindi la stessa adolescente insicura mai emancipatasi, che fa però un salto generazionale in avanti e vuole più che educare (non le importa, non è suo compito se non marginale e che viene di default) “terapizzare” la figlia. E sono “augelli per diabetici” – cit. Lino Banfi – ! È bellissimo vederlo scritto nero su bianco perché è quello che capita a tutte noi, benché solo le migliori hanno sufficiente lucidità e coraggio per ammetterlo con se stesse e magari con gli altri. È il tema della clonazione del sé con miglioramento eugenetico-psicologico che sta poi mandando al “lupanario” il rapporto genitori e figlie per quelle della mia generazione e oltre (o magari ha sempre, dalla notte dei tempi, ferito a morte ogni possibilità di sana relazione tra madri e figlie).
Ciò scritto, infine mi taccio. Ora si, corro a mandare tutto in redazione!

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