Quando le piazze non erano virtuali, la Napoli di Marotta

Conciliaboli pieni di ironia e digressioni, direttamente da un quartiere popolare di Napoli, a partire dalla lettura del giornale. Ecco di cosa si nutre “Gli alunni del tempo”, romanzo di Giuseppe Marotta. Neorealismo intriso di toni lievi che strappano sorrisi, distante sia dalle atmosfere di Gomorra che da quelle dell’Amica geniale

Non per fare pubblicità a questo sito, ma la scintilla mi si è accesa leggendo questo articolo qui, su San Gennaro non dice mai di no, pregevolissimi racconti con cui l’editore napoletano Alessandro Polidoro ha avviato la riscoperta delle opere di uno dei figli più in gamba di Napoli. Giornalista e scrittore instancabile, capace di conquistare il nord dei grandi gruppi editoriali – da redattore per Mondadori e Rizzoli oltre che da autore in proprio – e poi di tornare nella sua città giusto in tempo per morire a soli sessantuno anni: Giuseppe Marotta. Il secondo episodio di questa avventura editoriale targata Polidoro, che può contare su una preziosa prefazione di Goffredo Fofi, è Gli alunni del tempo (305 pagine, 16 euro), pubblicato originariamente nel 1958.

L’inesausto cicaleccio popolare

Romanzo, ottimo, d’altri tempi, Gli alunni del tempo, letto con gli occhi del presente potrebbe sembrare un testo fantascientifico, che ha come protagonista un alieno, l’indefesso acquirente di un giornale quotidiano (oggetto di carta stampata ormai desueto): è una guardia giurata, Vito Cacace, e ha questa insana abitudine… quotidiana. Unico possessore di un giornale del circondario, ovvero nella via del Pallonetto di Santa Lucia a Napoli (zona fotografata nel dopoguerra), in mezzo a gente che non può permetterselo, Cacace è il depositario delle informazioni che arrivano dalla città e dal resto del mondo e dà vita a gruppi di discussione, tra gli abitanti dei bassi, in piazze tutt’altro che virtuali; l’appuntamento è dopo pranzo, quando la lettura è… condivisa. Il rione popolare della città partenopea scelto da Marotta è, o almeno era, la quintessenza di Napoli, fra sacro e profano, bene e male. Il romanzo consta di una sfilza di giudizi e aneddoti scaturiti dalla lettura del giornale, un insistente e inesausto cicaleccio popolare, pressoché trascritto, quasi sbobinato se vogliamo. Non un’agorà frequentata da filosofi, ma un viaggio che da lettori vale la pena fare.

Cronaca, politica e… gossip

C’è tanta cronaca spicciola, affari politici, delitti efferati – in una realtà in cui il voto di scambio è la più naturale delle propensioni al momento dell’espressione di un diritto sacro – e perfino del gossip ante-litteram (da teste coronate a Kruscev, a Truman), nei quali in qualche modo l’uditorio di immedesima, prima di trasformarsi in un coro di voci che esce dal ventre della città. Registra tutto l’occhio di Marotta, sciorina ironia, quella che naturalmente emerge dai conciliaboli, innesca divagazioni e digressioni in un microcosmo che finisce per essere uno spaccato dell’universo. Neorealismo, certo, ma guardato con spocchia da taluni (un nome su tutti, Pasolini), per i toni lievi che strappano sorrisi, per la presenza di individui che vivono di espedienti, adulti ma non solo, scugnizzi e guaglioni abbastanza lontani da quelli dell’immaginario disegnato negli ultimi anni da Gomorra & C o dalle amiche geniali della Ferrante.

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