Il Chisciotte di Moresco e la coscienza di tutti noi…

“Chisciotte” di Antonio Moresco è un romanzo onirico e trascendentale, metafisico e spiritoso come certe volte solo le cose serie sanno essere. Chisciotte si sveglia in ospedale e viaggia, per le corsie, e sogna, rivelandoci le alienazioni di cui siamo vittime

Sull’Hidalgo di Cervantes sono stati sparsi fiumi d’inchiostro e non vi è settore letterario che non abbia in qualche modo omaggiato quello che, forse, è il più celebre personaggio mai esistito in un libro. Non a caso Don Quijote de la Mancha costituisce emblematicamente la stessa letteratura perché ne riflette gli intenti e le caratteristiche: qualcosa capace di raccontare e di trasformare, contemporaneamente. Basta dunque andare in libreria e cercare qualcosa su di lui perché, senza troppe difficoltà, sia possibile fare incetta di testi d’ogni tipo, da riletture teologiche o psicologiche, a commentari di ogni specie, a romanzi spin-off che ne allungano le vicende originali, a prequel che ne anticipano i fatti. Ma ci sono anche dei saggi di politica e di sociologia che si ispirano a lui, come pure degli studi che ne analizzano il personaggio in chiave testuale o metanarrativa, etc. Insomma, ce n’è per tutti. E al solito, nella stragrande maggioranza dei casi simili, il Don Chisciotte di Cervantes è il classico testo che pochissimi hanno letto (perché non è affatto una lettura facilissima, e perché le cose belle costano fatica, tempo e dedizione!) e su cui tanti scrivono e moltissimi parlano.

Una raccomandazione

Pertanto, prima di procedere oltre, raccomandiamo ancora una volta ai nostri lettori di compiere un atto di coraggio (tipicamente cavalleresco, è il caso di dire) e di leggere, prima di qualunque altra cosa, il libro originale. Perché è da lì che ogni altro testo attinge. È come quando qualcuno ci parla di qualcun altro: le sue parole hanno senso e sono degne di fiducia solo se entrambi gli interlocutori sanno perfettamente di chi stanno parlando e a cosa si stanno riferendo; ogni altra cosa rischierebbe di diventare cortile.

Ma può accadere anche qualcos’altro. E cioè che qualcuno, raccontandoci una storia riguardante una terza persona, faccia sorgere in noi la curiosità e il desiderio di averne prima o poi una conoscenza di prima mano, che non debba più passare da altri riflessi di memoria o che, se intende farlo, sappia a quel punto stabilizzarsi su una precisa base esperienziale, una letteraria autonomia di giudizio che, procedendo dall’archetipo, sia perfettamente in grado – poi – di suffragare d’ermeneutica di tutte le altre eventuali varianti letterarie.

Una realtà filtrata

Può succedere – per esempio – con il libro di cui parliamo in questo articolo, che ha il merito di non volersi sostituire all’Opera originale (e come si potrebbe?) ma di far leva su una finzione che, se da un lato presuppone certamente il personaggio di Cervantes, dall’altro gode di una sua vita propria, di una sua indipendenza narrativa tale da poter presentare un Chisciotte che non è, e non dev’essere necessariamente, lo stesso di Cervantes; ma che, contemporaneamente, può anche esserlo dopo aver attraversato l’inconscio di chi lo ha conosciuto. Una realtà filtrata, un assenzio di percezioni che sgocciolano sul piano di ogni singola esistenza, portando con sé il sentore dell’artemisia, senza che non sia più solo questo. Insomma, un sapore che si stacca dalla sua propria origine, che ne ricorda gli aromi e le caratteristiche essenziali ma che, al contempo, è già qualcos’altro.

Un’autoidentificazione senza equivoci

Chisciotte (128 pagine, 15 euro), Sem editore, opera del mantovano Antonio Moresco, è un romanzo particolarissimo, onirico, e per certi versi trascendentale. È il tentativo – così ci è sembrato – di considerare l’originale di Cervantes come una parola da incarnare ancora, perché ancora potesse compiere un passaggio ultimo. Chi conosce Moresco giusto un poco – e magari ha già letto La Cipolla, o Canti del caos, o ancora Gli increati, giusto per citarne qualche opera – sa perfettamente quanto questo autore sia al di là delle righe (piuttosto che sopra o sotto); sa che non si può leggere un libro di Moresco senza prescindere l’autore. Insomma, bisogna prendersi tutto il pacchetto: se Moresco racconta una storia, in quella storia c’è lui, in una maniera o nell’altra; devi prenderne atto e procedere. Questa volta, però, forse perché il libro nasce da un’idea cinematografica, Moresco gioca la carta di un’autoidentificazione senza possibilità di equivoco, smascherata nella maschera di copertina, dove lui stesso e il suo protagonista appaiono incastrati nella stessa immagine. E devo dire – ma questa è una mia impressione – che difficilmente si potrebbe immaginare un Don Chisciotte così somigliante a quello che, più o meno, ci siamo tutti immaginati: radi capelli incanutiti, sguardo fiero e nobile, tratti decisi e volitivi senza prepotenza, e quei pochi e giusti colori per un abbigliamento essenziale che, nel compromesso tra armatura e drappo aristocratico, ci dà forse l’immagine precisa di ciò che sta a metà tra la follia e la saggezza.

Il Chisciotte di Moresco rinuncia alla titolazione cortese. Il don è assente e appare solo il nome. Forse un richiamo all’essenza del personaggio. Già, perché il romanzo potrebbe mostrarci che un Don Chisciotte oggi rischierebbe d’apparire fuori luogo, acronico e certamente utopico, mentre – in fin dei conti – un Chisciotte potrebbe nascondersi dentro ognuno di noi, noi che calchiamo le scene della nostra vita quotidiana senza farci troppe domande, senza scendere al più profondo senso delle cose, senza chiederci cosa ci sia dietro le apparenze. E allora il Chisciotte potrebbe venir fuori dalla coscienza di ciascuno di noi, e imporci un codice morale preciso, attento, incorruttibile, e naturalmente folle (almeno agli occhi del mondo).

In un reparto psichiatrico

Il Chisciotte di Moresco si risveglia in un ospedale, per essere precisi all’interno di un reparto psichiatrico. E non sappiamo quando e perché, né cosa sia accaduto prima. Non importa, perché il risveglio di Chisciotte in un mondo che “non gli appartiene” (così sembrerebbe all’inizio) coincide con il risveglio della coscienza di chi legge. Questo risveglio, da quel momento in poi, trasfigura la realtà mostrando una semantica umana decisamente lontana da quella imposta dal senso comune.

Chisciotte si sveglia e viaggia. Gli sono ormai precluse le sconfinate ed arse pianure della Mancha, ma per lui le corsie d’ospedale sono sentieri degni d’essere scrutati, strade da percorrere dove è possibile incontrare materia umana insospettabile, e tanta altra maestà e bellezza che, sub contraria specie, egli riesce a riconoscere.

Quasi in contemporanea appaiono le altre due figure, che già Cervantes aveva liberato dalle catene dei comprimari. In qualche modo costituiscono, invece, gli agganci necessari di Chisciotte al mondo reale e al sovrasensibile, le sue due garanzie a rimanere coinvolto e compromesso tanto con il sogno, andando oltre il visibile, quanto con il mondo, tenendo i piedi ben piantati a terra: Dulcinea e Sancho.

Le iperboli su Dulcinea e Sancho Panza

La prima, scoperta durante i suoi viaggi all’interno del reparto di ortopedia, è una donna tutta ingessata. L’altro, nei panni di un infermiere cui Chisciotte viene affidato come un caso da tenere sempre sott’occhio, è forse il più fastidioso Sancho Panza che qualcuno possa essersi figurato. Le iperboli descrittive che fanno da eco alla presenza di questi due personaggi ne amplificano non solo il valore narrativo ma soprattutto la forza di senso e la loro funzione. Così, mentre Dulcinea può parlare a Chisciotte solo attraverso una parte del suo corpo che l’Hidalgo ritiene essere la bocca (e lì Moresco firma tutta la sua coraggiosa genialità, riconducendo sessualità e purezza all’unica scaturigine), Sancho appare oltremodo abbrutito da tutta una serie di gesti e di parole che esplicitano fino al parossismo il contrasto tra il messere e il suo attendente.

Il romanzo procede attraverso dilatazioni sempre più ampie, trasformando quella che all’inizio era solo una rappresentazione pittorica in un inno stesso al simbolo, una narrazione che diventa un De Chirico: ogni elemento si deforma, si amplifica, si trasfigura idealizzandosi. L’elemento onirico prende interamente possesso della storia così che – forse per la prima volta – noi che leggendo di Don Chisciotte abbiamo sempre sognato, adesso veniamo invitati a partecipare al suo stesso sogno!

Il sogno e le alienazioni

Sembra, in certi momenti, di essere come nel film The Cell, dov’era possibile entrare nel subconscio di un uomo addormentato per scoprire i segreti della sua alienazione. Qui accade qualcosa del genere, ma con un esito diverso: il sogno di Chisciotte rivela a noi stessi le alienazioni di cui siamo spesso vittime.

Romanzo arguto, metafisico, spiritoso come certe volte solo le cose serie sanno essere, scorrevole, senza banalità e contemporaneamente senza pretese d’intellettualismi. Un Chisciotte leggero, come la coscienza quando non ci pesa addosso. Un Chisciotte simpatico, iconico, buffamente simile a quello che tutti si immaginano e – proprio per questo – capace di stupirci con la novità di Ciò che è lo stesso ieri, oggi e sempre.

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