Zannoni, la fame selvaggia di sopravvivere e conoscere

“I miei stupidi intenti”, magnifico debutto di Bernardo Zannoni, evoca un intero universo collocandolo nella dimensione animale. La favola cupa della faina Archy ricorda le morali di Esopo, il colpo di genio risiede nella solida visione della verità nuda e molto cruda, appetitosa e respingente 

I miei stupidi intenti (252 pagine, 16 euro) di Bernardo Zannoni, oltre ad essere il folgorante esordio di uno scrittore venticinquenne per Sellerio, è anche un romanzo che non va rivelato. Raccontarne i dettagli prima che si sia avuta la possibilità di leggerlo è un vero sacrilegio, una profanazione non solo della trama, ma anche del potere evocativo della scrittura.

Perché è questo che fa Zannoni: evocare un intero universo, collocandolo per lungimiranza – e forse anche un po’ per sfida – in una dimensione che non ci aspetteremmo, una realtà alla quale abbiamo dimenticato di appartenere e che pure ci appartiene molto, quella animale.

L’umanità con le sue grettezze e con i suoi desideri

L’imponente cardine su cui ruota la storia di Archy la faina è la fame, ed è una fame selvaggia, il viscerale istinto che si sdoppia nella prepotente bestialità di una sopravvivenza fisica e nell’invincibile, sconquassante desiderio di conoscenza.

Ogni volta che Archy si imbatte con crudezza nella vita, una certezza si consolida perché, dentro a questa favola cupa, che per durezza di insegnamenti ricorda le antiche e spiazzanti morali di Esopo, c’è l’intera umanità con le sue grettezze, le sue pulsioni, i suoi profondi desideri e le sue incapacità.

Zannoni travasa il mondo, lo imbottiglia e lo fa passare per lo stretto collo di una metafora che si compie dentro al ventre opaco di una verità che quasi mai ci si racconta.

Essere una faina diventa allora un punto privilegiato di osservazione, la strettoia attraverso cui farci passare tutti, mantenendo una distanza che si trasforma in grazia per l’innocenza di cui è lastricata, anche nel male.

L’inesorabile compromesso tra due nature

Così Zannoni fa di Archy, che perennemente oscilla tra due dimensioni, il perfetto, crudo, inesorabile compromesso tra due nature e insinua nella sua mente intonsa la dolorosa idea che esista una sovrastruttura ancestrale a cui corrisponde il nome di un dio faticoso, inesorabile, appena abbozzato da un Testamento che pare unico, un’entità a cui fare risalire tutto e a cui tendere, avidamente.

E, tramite Archy, l’autore ricorda a noi tutti l’esclusività umana della parola, strumento di memoria, vantaggio di inestimabile valore, sacro motivo per cui morire e, allo stesso tempo, unica via di salvezza.

Non ci si aspettino banalità, surrealismi o tenerezze da questa storia, bensì il colpo di genio, perfettamente riuscito, che risiede nella lineare, solida visione della verità, spogliata dei suoi orpelli barocchi e di tutti i suoi castelli di carta, nuda e molto cruda, così come è, appetitosa e respingente. Un concetto dimenticato che torna a noi attraverso gli occhi nuovi di una faina.

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