Levantino, la coppia randagia e un match di guerra

“La violenza del mio amore” è il terzo episodio della saga del giovane Rosario, scritta dal palermitano Dario Levantino. Con intreccio solido e credibile, forse quello col plot più avvincente. Il protagonista e la sua ragazza Anna, incinta, sono soli contro l’ottusità dei famigliari e l’inospitalità del mondo, possono contare solo sul sostegno del lettore, che si ritrova talora col fiato mozzato, talaltra col cuore spezzato. E la storia non finisce qui…

Nel 2018 Dario Levantino, palermitano, classe ’86, con il pluripremiato Di niente e di nessuno (Fazi editore), romanzo di formazione su cui mi soffermai più dettagliatamente qui, ci scortò per la prima volta a Brancaccio, quartiere tra i più problematici della sua città natale, catapultandoci nella vita di Rosario, ragazzino caparbio e sprovveduto, che emozionò i lettori con le sue peripezie.

L’anno seguente, consapevole di aver agevolato l’insorgere di una dipendenza affettiva dal turbolento, ma anche un po’ sfigato – quando ce vo’, ce vo’– adolescente siciliano, con Cuorebomba, edito da Fazi, regalò al suo pubblico un secondo frammento della funambolica adolescenza brancaccese di Rosario. Ancora una volta ne tessei le lodi sulle pagine di Lucia Libri.
Chi, come la sottoscritta, è tra i simpatizzanti che aspettavano trepidanti il terzo capitolo di questo sbilenco cammino di sopravvivenza e crescita, non può che salutare gioiosamente La violenza del mio amore (260 pagine, 16 euro), ancora per Fazi editore, in libreria dagli inizi di settembre.

Dettagli meticolosi, ambientazione inappuntabile

Nel raccontarvi del nuovo romanzo, mi si ripropone il medesimo impaccio – ovvero il timore di essere ripetitiva – già sperimentato quando scrissi di Cuorebomba. In effetti, sentendo innanzitutto l’obbligo di soffermarmi sulla bravura e sull’audacia dell’autore, mi espongo al rischio, esternato poc’anzi, di ribadire cose già dette in precedenza. Sacrosanto, infatti, è evidenziare l’impeccabile forma sfoggiata pure in questo libro da Dario Levantino. Riconfermo i crediti ascrivibili alla sua lingua, sempre estremamente curata. Valutazione ottima, altresì, per quanto concerne tono e ritmo narrativi, rimodulati con coerenza, in modo da fornire non solo la prospettiva migliore da cui osservare i fatti, ma l’opportunità di esserne partecipi emozionalmente. Guadagna addirittura dei punti riguardo la meticolosità dei dettagli, avendo riscostruito, scrupolosissimo in quanto a verosimiglianza nonostante la delicatezza del tocco, un’ambientazione – mi riferisco tanto all’ecosistema territoriale di Brancaccio, quanto a quello del contesto scolastico – inappuntabile.  Da tali semi, altrettanti egregi frutti: le proiezioni e le implicazioni di natura psicologica che l’autore fa riverberare dall’evoluzione della storia su Rosario e Anna – la sua compagna – sono pienamente congruenti con tali matrici.

Nessuna voce da Grillo Parlante

Giungo così all’altro punto da illuminare, dal quale scendo giù in picchiata sul nocciolo della trama, dando sfogo all’entusiasmo e al piacere che mi hanno dominato nel corso della lettura: il coraggio dello scrittore di non cedere alla tentazione di trasformarsi in grillo parlante, in coscienza giudicante, in vox populi moralizzante, riaffermato attraverso la scelta di lasciare nuovamente Rosario in balia di sé stesso. Una conferma, quella per Rosario ad autodeterminarsi nel bene, nel male e nel peggio, che giova dal punto di vista narrativo, poiché non solo garantisce la solidità e la credibilità dell’intreccio alle quali l’autore ci ha da sempre abituato, ma fa di questo plot, forse, il più avvincente. Il ritorno di Anna, la futura paternità, la solitudine, il randagismo emotivo della coppia priva di puntelli, la lotta a muso duro contro l’ottusità dei famigliari e l’inospitalità del mondo, sono tutti livelli di difficoltà di un match di guerra che ha come posta in gioco ben tre vite (se si include il nascituro), e che Rosario disputa senza usufruire di altri bonus all’infuori del sostegno del lettore, il quale si ritrova talvolta con il fiato mozzato, talaltra con il cuore spezzato.

Verso il seme del riscatto

Dario Levantino avrebbe potuto fare, di questa terza puntata della saga, l’epilogo redentivo. Al primo inciampo del ragazzo ci ho anche sperato. Quando Rosario, disperato, si butta in pasto al mafioso e poi, con un fremito di ritrovato orgoglio, volta daccapo le spalle al male, ho desiderato una imminente conclusione a tarallucci e vino. Ma ha ragione l’autore: non è tempo che la vicenda si concluda. C’è ancora un bel tratto di strada da compiere insieme al ragazzo di Brancaccio per approfondire quanto un essere umano possa resistere alle avversità del destino. C’è ancora un ampio margine di indagine da condurre nei meandri della subcultura mafiosa per apprenderne gli ulteriori, sordidi meccanismi che minano i principi sociali. C’è ancora una utopia da coltivare: che l’homo non sia ritornato definitivamente hominis lupus. A giudicare dal cliffhanger con cui si conclude La violenza del mio amore, è del tutto lecito desiderare, infatti, che la vena narrativa dello scrittore palermitano non ci pianti in asso sul più bello, e che, nel prossimo romanzo, lasci germogliare per Rosario e tutti gli ultimi di cui è il rappresentante, il seme del riscatto.

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