Rigoni Stern 100, il sergente e la guerra da cui non si torna mai

Il primo novembre 1921 nasceva ad Asiago Mario Rigoni Stern, uno dei maggiori scrittori del dopoguerra italiano. Il senso della sua narrativa, a partire dall’oggi costituisce uno dei maggiori contributi alla memoria della nostra democrazia e spunto per consolidare i valori dell’antimilitarismo e della salvaguardia della natura affermando la pace come unica soluzione possibile 

Un giovane di diciassette anni si arruola come alpino, a venti anni parte per la sua prima campagna militare nei Balcani, a ventidue anni già ha raggiunto il grado di sergente maggiore, partecipa alla Campagna di Russia con la Compagnia Tridentina, combatte nelle steppe in pieno inverno, partecipa ad una delle battaglie più sanguinose della storia dell’esercito italiano (Nikolaevka), sopravvive, riesce a portare in salvo i suoi uomini. Torna in Italia, rifiuta di arruolarsi nell’esercito della neonata Repubblica Sociale Italiana, viene imprigionato e passa oltre diciotto mesi nei lager tedeschi. Nel maggio del 1945 riesce a tornare in Italia, ancora una volta fidando quasi solo sul suo corpo. Scriverà nella sua opera prima e più famosa:

“Questo mio fisico è davvero meraviglioso: muscoli, nervi, ossa; non credevo prima d’ora che potesse sopportare tanto” (Il Sergente nella neve)

I ricordi che bussano

Una volta rientrato in Italia, l’uomo prova a ricostruire la sua vita, partendo dalle cose semplici. La guerra è finita e forse non tornerà, questa volta. Inizia a lavorare nell’ufficio del catasto del suo paese, tra le sue montagne, sposa la sua ragazza, quella che in guerra sogna ogni momento e al cui ricordo si affida per sopravvivere, ha un figlio. Fino a quando… 

… fino a quando i ricordi non ce la fanno più a restare chiusi nella mente, sono troppi, insistenti, ingombranti, dolorosi. Bussano, sfondano, sono sempre lì. Vivere con il loro peso pare impossibile. 

Il giovane che ormai ha circa trenta anni inizia a scrivere, anzi recupera gli appunti presi durante i lunghi anni di prigionia per rispondere a quel crescente bisogno di restituire una voce a chi non ce l’ha fatta. Vuole rimediare ad un torto, il torto di un intero Paese: aver obliato volontariamente la campagna di Russia per la vergogna dei vertici incapaci di assicurare quanto meno la copertura e le forniture necessarie alla salvezza se non alla vittoria. Riprende i suoi diari di prigionia, quando la scrittura era catarsi, salvezza, scopo per la sopravvivenza e scrive, scrive, porta a compimento Il sergente nella neve, pubblicato da Einaudi.

Il ragazzo, l’uomo, il soldato, ormai lo avrete capito, è Mario Rigoni Stern di cui il primo novembre 2021 ricorre l’anniversario centenario della nascita. 

La costruzione di una coscienza storica

La scorsa estate ho visitato i suoi luoghi, la sua Asiago, le sue montagne. Erano anni che volevo vedere con i miei occhi l’Altipiano, trovare le viste che hanno salvato Rigoni Stern e che sempre cita nei suoi libri. Ho camminato quei sentieri, percorso le trincee della Grande Guerra, letto i suoi libri, riletto altri. Soprattutto ho condiviso le letture con mio figlio e parlato con lui. Mi sono confrontata con temi che in quei luoghi parevano più vivi, mi sono chiesta quanto uno scrittore degli anni ’50 del Novecento possa essere attuale oggi; cosa racconti oggi una battaglia della campagna di Russia ad un adolescente.

La risposta è arrivata: Rigoni Stern dice ancora tanto, a tratti tutto della vita, i suoi libri contribuiscono alla costruzione di una coscienza storica che è fondamento della nostra democrazia e del nostro vivere civile; ricorda che nessuna vita deve andare sprecata nelle guerre di conquista, che ogni uomo è importante, che nessuno è solo un soldato. 

Il Sergente non ha bisogno di presentazioni, tanto meno di esegesi; è un libro breve, sintetico diviso in due parti. La prima “Il caposaldo” narra la vita dei soldati durante quella campagna che lui definisce chiaramente “di occupazione”, narra delle “tane”, le trincee dove i soldati italiani trascorrevano il tempo sospeso del ‘non combattimento’. La seconda parte “La sacca” è il racconto serrato e spietato della ritirata del Don, degli uomini che hanno combattuto per salvarsi, consapevoli di essere gli occupanti. “La sacca” è la denuncia contro uno Stato Maggiore incapace di proteggere la ritirata dei propri soldati e narra la forza di Rigoni e dei suoi alpini che tagliano le linee sovietiche e si guadagnano la salvezza. 

Il sentire della trincea e la tragedia della ritirata

Pochi libri raccontano il sentire della trincea come la prima parte de Il Sergente (Rigoni Stern ricorda sempre che senza il libro di Emilio Lussu “Un anno sull’Altipiano” non avrebbe scritto questo suo), l’immobilità, le piccole cose dei soldati, il sollievo del non combattere, la certezza dell’attesa che significa vita.

“Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue lombarde.” (Il Sergente nella neve)

Nella seconda parte, “La sacca”, tutta la tragedia della ritirata è raccontata con uno stile asciutto per raccontare la continua ricerca di una forza interiore per andare avanti, passo dopo passo, fino a casa.

“Ghe rivarem a baita, Sergentmagiù?” (Il Sergente nella neve)

La domanda che Giuanin ripete è lo scopo di questi uomini, non la guerra, non l’orgoglio nazionale, non la vittoria, non la gloria, solo il ritorno a casa. Sopravvivere per rivedere le proprie montagne, riabbracciare la mamma e una ragazza. A questo tendono i soldati, per questo lottano l’uno al fianco agli altri. 

La storia è raccontata attraverso piccoli episodi, piccoli avvenimenti: l’entrata in una isba, il ritrovamento di una gallina da mangiare, il salvare donne e bambini dalla furia di un esercito in rotta, la paura dei russi in agguato, i disertori che si nascondono tra i locali, i panzer tedeschi che guardano e non soccorrono, i pidocchi, il freddo, il vento gelido, il sudore sotto gli strati di vestiti, la fame, il sonno. 

Mangiare assieme ai nemici

Indimenticabile il brano in cui racconta di aver bussato alla porta di una isba, la risposta è in russo, lui entra e trova seduti intorno ad un tavolo a mangiare soldati russi. Gli italiani mezzi morti di freddo e di fame sull’uscio pensano che ormai sia finita, i russi spareranno e moriranno lì. I russi pensano forse lo stesso, rilassati e disarmati sarebbero facile preda. Gli italiani non sparano, i russi fanno segno di entrare e mangiare con loro. Il racconto è di una umanità disarmante, la speranza che l’uomo non sia lupo all’uomo.

I ricordi di guerra costituiscono la nervatura della letteratura di Rigoni Stern, che sia la memoria ereditata della Grande Guerra che ha devastato il suo Altipiano, sventrato le sue montagne o che sia il ricordo del vissuto in Albania, in Francia, in Russia, nei lager tedeschi, la guerra deve essere raccontata per esorcizzarla. Nella prefazione all’edizione per le scuole di Il sergente Rigoni dettaglia la sua poetica in modo semplice e chiaro per arrivare ai giovani che della guerra sono le vittime. Dalla guerra non si torna mai realmente, un pezzo dei soldati superstiti resta sul fronte, combatte ogni notte mentre la memoria di chi cade in battaglia perseguita i sopravvissuti. 

“Ogni anno, quando cadeva la prima neve e dalla finestra che guarda gli orti vedevo tetti e montagne imbiancarsi, mi prendeva una malinconia che stringeva il cuore e mi isolava da tutto il resto. Come se questa neve avvolgesse e coprisse la vita che è nel corpo. Anche di notte mi svegliavo quando nevicava. Lo sentivo che nevicava, e stavo immobile dentro il letto. I primi anni prendevo gli sci e andavo. Andavo da solo dove non avrei incontrato nessuno. Nessuno, tranne quello che avevo lasciato là.” (Ritorno sul Don)

Restituire dignità a ogni uomo

D’altra parte Il sergente nella neve trova completamento nel racconto Ritorno sul Don. Nel 1973, esattamente trent’anni dopo la ritirata, Rigoni Stern ottiene il visto per recarsi in Russia, sul Don dove aveva combattuto e visto morire tanti dei suoi compagni. Torna, ritrova i luoghi guidato dall’istinto, lo stesso istinto che trent’anni prima lo aveva portato in salvo. Torna e rievoca tutto, chiama i suoi compagni uno ad uno, tocca la terra non ancora gelata, piange, espia, ricorda e porta conforto a quegli alpini che riposano troppo lontano dalle loro montagne.  

La grandezza della sua scrittura è nella capacità di restituire dignità ad ogni uomo, ogni soldato. Il soldato non è sempre buono, non c’è alcun mito, solo la certezza della lealtà di tanti che hanno combattuto a costo della propria vita per non abbandonare i propri compagni.  

Leggere i libri di Rigoni significa anche fare i conti con la Natura, una presenza costante in ogni momento, anche i più difficili. La Natura non è amica, non è nemica, la Natura semplicemente è, esiste e l’uomo non può che arrendersi alla sua grandezza che sia accoglienza o che sia spietatezza. 

Si levò il vento. Dapprima quasi insensibile, poi forte sino a diventare tormenta. Veniva libero, immenso, dalla steppa senza limiti. Nel buio freddo trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare.” (Il Sergente nella neve)

L’autunno è meraviglioso di colori e questi boschi sembrano i miei. Volentieri mi fermerei a parlare con quel cacciatore e quel ragazzo: hanno appena sparato e il cane gli riporta la beccaccia. È un mondo pulito e pacifico, ma pure sento dentro qualcosa che risale, come una paura profonda e assopita”. (Ritorno sul Don)

Dalla Natura, dalle sue montagne, Rigoni Stern riparte per recuperare l’equilibrio dopo la guerra e la prigionia, nella natura, nei boschi si immergerà fino agli ultimi mesi della sua vita. Alla Natura dedicherà l’altro grande filone della sua narrativa, attraverso l’attenzione verso ogni singolo albero, ogni roccia, ogni arbusto. La grazia della Natura diventa balsamo per l’anima e allo stesso tempo fragile equilibrio da preservare con cura.

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