La bugia di Pinocchio, l’originale era tetro e non edificante

Un racconto del terrore per nulla rassicurante, che svela l’anima gotica e fantastica di Carlo Collodi. La prima stesura del capolavoro Pinocchio aveva come sottotitolo “La storia di un burattino” ed era… un altro libro. Più che insegnare qualcosa, aiutava a comprendere un po’ il mondo, la vita ma soprattutto la morte…

Non scagliate la prima pietra contro Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Non dategli addosso se per amor di patria, quieto vivere e qualche zecchino d’oro, cedette al virus del politicamente corretto. Decenni prima qualcosa del genere era successo ai fratelli Grimm, piegati a parole d’ordine inequivocabili: edulcorare, smussare, temperare. La mannaia della dolcezza si era abbattuta sulle loro fiabe ed era andata così con uno di quelli che sarebbe diventato uno dei volumi italiani più diffusi e letti di sempre, Le avventure di Pinocchio. In questa sede, però, piace concentrarci su altro, ovvero sulla prima edizione oscura del capolavoro di Collodi che, curata da Salvatore Ferlita, valente studioso palermitano, e superbamente illustrata da Simone Stuto, ha visto la luce grazie alla casa editrice Il Palindromo. Pinocchio. La storia di un burattino (149 pagine, 15 euro) è un altro libro. Più adatto a lettori di tutte le età, più violento, più efferato, per nulla rassicurante e consolatorio, decisamente in linea con la biografia “maledetta” dell’autore.

Capire il mondo

L’anima gotica e fantastica (anche ironica) di Collodi, quella più sincera e aderente alla realtà, sta in un pugno di pagine tetre e veloci, quelle di questa prima fosca versione di Pinocchio. Sono parecchie le differenze con quella giunta ai giorni nostri, ma questo Pinocchio sanguigno e originario – che non diventa mai bambino – colpisce soprattutto per il finale pulp in cui il burattino finisce con le gambe penzoloni al ramo di una grande quercia. Naturalmente le modifiche apportate dall’autore non risiedono solamente nell’epilogo originariamente non lieto, non furono solo di forma, ma anche di sostanza. Più che avere intenti edificanti, più che puntare a insegnare qualcosa, la prima stesura voleva dare una mano a comprendere il mondo, ad assaggiarlo. A capire la vita, ma soprattutto la morte.

Un’altra possibilità

Come fa notare Ferlita, nella sua nota, l’ombra della morte e i colori notturni aleggiano lungo tutto il racconto, appena quindici capitoli (Collodi ne aggiungerà altri diciotto per la versione definitiva), in cui – non pochi critici – c’è anche chi ha visto un parallelo con Cristo. Resta un racconto del terrore agile e irrazionale, con una morte inspiegabile e un personaggio circondato da presagi oscuri, quando non infernali. Una svolta totale nella produzione dello scrittore toscano. Chissà dove lo avrebbe portato se le proteste di tanti giovani lettori (il libro fu pubblicato inizialmente a puntate, su rivista) e l’offerta dell’editore non avesse condotto Collodi nella comfort zone in cui da oltre un secolo ha adagiato il burattino più famoso del pianeta: miele più che bellezza tragica, piedi per terra piuttosto che un filo teso sul vuoto. Questo recupero, però, restituisce a noi lettori un’altra possibilità, un’altra strada. Niente male.

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