Investigazione intima fra memoria e realtà, Kantoch ammalia

La forza di “Buio” della polacca Anna Kantoch sta nell’incertezza tra cosa è davvero successo e cosa può essere solo transitato dalla mente instabile della protagonista, una donna ricoverata in un sanatorio. Una storia labirintica non priva di colpi di scena che lascia aperti interrogativi, alla fine tutto sembrerà illusorio, ombroso, torbido…

Resistere a Buio (192 pagine, 16 euro) è impossibile. Come una sottile ragnatela tessuta con sagacia e abilità, la scrittrice polacca Anna Kantoch vi catturerà inesorabilmente. Qualcuno ha scritto che questo romanzo (pubblicato da Carbonio, con la traduzione di Francesco Annicchiarico) avrebbe fatto la gioia di Sigmund Freud. Condivido.

L’infanzia e un omicidio mai risolto

La protagonista è una donna, non più giovane, bella, chiusa in un sanatorio. Siamo in Polonia, sulle sponde del Mar Baltico, corre l’anno 1935 e manca poco all’invasione delle forze naziste di Hitler. La donna, di cui non conosceremo mai il nome né il perché del suo ricovero in sanatorio, viene raggiunta dal fratello maggiore che la porta via con sé: destinazione Varsavia. Ma sarà la metaforica località di Buio che la protagonista del romanzo raggiungerà (chissà se veramente o solo con l’immaginazione), a rapire la sua mente e quella del lettore. Buio è un luogo magico, il luogo della sua infanzia felice, un posto di villeggiatura immerso nella campagna polacca dove la famiglia della voce narrante trascorreva le vacanze estive e dove tanti anni prima era stata uccisa nei pressi del fiume attiguo una famosa attrice di teatro, tale Jadwiga Rathe, ospite del padre della donna del sanatorio, il cui assassinio non sarebbe mai stato risolto.

La negazione del tempo

I miei ricordi di Buio sfociano tutti in un’assoluta eternità in cui noi giochiamo liberi dai vincoli del tempo.

Buio è la storia di una passione infantile che diventa ossessione, e di un’ossessione che si fa malattia. “Buio” è uno spettro, un richiamo ipnotico che costringe la protagonista a fare i conti col proprio passato. “Buio” è la negazione del tempo, almeno per come lo intendiamo noi. “Buio” è l’esaltazione dell’eternità e della nostalgia. “Buio” è una storia labirintica non priva di colpi di scena che lascia aperti tanti interrogativi, che cancella ogni certezza, che annulla ogni riferimento. Che tratta di identità di genere, di iniziazione sessuale, del dolore e della perdita.

Cosa è successo e cosa no

Buio, la mia infanzia, il mio primo amore, il mio segreto.

La narrazione è deliziosamente lenta e ammaliante, frutto di una prosa pulita e allo stesso tempo ricercata, attraverso la quale Anna Kantoch alterna, e volutamente confonde, frammenti di memoria e realtà. Tutto alla fine vi sembrerà illusorio, ombroso, torbido. Non avrete modo di cogliere con nitore cosa è realmente successo e cosa invece può essere transitato solo dalla mente instabile della protagonista. E sta proprio in questa incertezza la forza e la grandezza del romanzo. Pagina dopo pagina l’autrice polacca farà respirare al lettore la stessa aria che respira la donna senza nome, i cui nervi fragili si riveleranno presto incapaci di distinguere il sogno dalla realtà, la forma dalla sostanza, il passato dal presente.

Non è possibile, eppure è così.

Noir psicanalitico

Anna Kantoch, classe ’76, esponente di punta del gruppo letterario “Harda Harda”, è apprezzata nel suo paese soprattutto per la letteratura fantastica: ma Buio va ben oltre il fantastico, supera i confini del genere letterario, è più un’investigazione intima, un noir psicanalitico che non può non rimandare a due giganti come Patrick McGrath e Shirley Jackson. Un romanzo che pur giocando esplicitamente col non-detto ingrana subito, trascina, inquieta, inganna, fino a restituirvi completamente la fiducia che avete riposto in esso all’inizio della vostra lettura.

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