Nella New York di O’Hara vuoti dell’anima e occasioni perdute

Dialoghi così efficaci da poter essere accostati a quelli di un Chandler o di un Ellroy in “Siamo di nuovo amici” di John O’Hara. Il racconto, con la sua verità abrasiva e irrisolta, ci introduce in una NY compressa dalla noia aristocratica, rappresentativa di una upper class spiritualmente decaduta

Non è di certo uno scrittore minore, John O’Hara, ma la sua fortuna, condizionata anche da un carattere particolare – cosa tutto sommato frequente negli ambienti artistici di ogni epoca e luogo -, subì vicende alterne, tanto che, pur accostato a scrittori del calibro di Fitzgerald, non ne raggiunse purtroppo la stessa fama.

Ciononostante O’Hara gli anni ruggenti li rappresenta magistralmente, piazzandoli sulla pagina senza mezze misure, provocandoli attraverso il ritmo serrato dei suoi dialoghi perfetti: dei botta e risposta al vetriolo che non disdegnano però lo charme e l’affettazione degli ambienti più in vista della City.

Già scrittore di successo

Siamo di nuovo amici (114 pagine, 13 euro), tradotto da Vincenzo Mantovani, è il volume conclusivo di una trilogia in cui Racconti Edizioni ha ripubblicato e suddiviso le storie che compongono Prediche e acqua minerale, una serie di short stories con Jim Malloy come protagonista.

Jim è uno scrittore di successo che forse, in quest’ultima tranche della sua vita, la linea del successo l’ha anche oltrepassata.

Affidandoci alle sue stesse parole:

Uno scrittore appartiene al suo tempo, e il mio è passato. Negli anni o nei giorni che mi restano, mi divertirò a contemplare il mio tempo, affascinato dal modo in cui le cose si collegano l’una all’altra.

Circoli esclusivi e tresche squallide

O’Hara ci introduce in una New York compressa dalla spessa cortina di una noia aristocratica, rappresentativa di una upper class spiritualmente decaduta, che svapora tra un match e l’altro nei circoli più esclusivi, e si perde dentro a squallide tresche amorose frettolosamente consumate negli appartamenti di lusso di una metropoli che non dorme mai.

Ma sotto i lustrini si intravedono sagome umane, persone con le loro inconsapevolezze e fragilità, coi loro drammi, tanto che quest’ultimo racconto si apre proprio con la morte di Nancy, la moglie del migliore amico di Jim, Charley.

Una perdita imprevista – Nancy era giovane e bella, già divorziata e risposata – diventa così il pretesto per rivangare il passato malinconico di Jim e indagare i vuoti dell’anima e le occasioni perdute che tornano a perseguitare quell’uomo navigato, ormai avvezzo ad ogni forma di cinismo.

La solitudine che consuma

È l’uomo che si consuma nella solitudine quello che O’Hara preferisce, quello che deperisce ed entra in crisi nonostante sia circondato da un sogno americano manifesto, decisamente lontano dalle storie minori di chi il sogno americano se lo fa bastare anche quando non basta neppure per pagare l’affitto di una catapecchia. È il personaggio che sorge e si compone attraverso i dialoghi, così efficaci da poter essere tranquillamente accostati a quelli di un Chandler o di un Ellroy ai loro massimi livelli.

Solo la verità dunque, viscerale, abrasiva, irrisolta.

Che poi è tutto quello che si può chiedere a uno scrittore.

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