Giovanni Di Marco: “Contro la Chiesa che difende carnefici”

“Uno scandalo le tante storie di abusi dei sacerdoti sui bambini, mi aspetto ben altro da parte di chi si candida a faro della moralità. Ecco perché ho scritto questo romanzo”. Intervista a Giovanni Di Marco, autore dell’esordio “L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi”, che racconta: “Ci sono tante cose inventate, ma i miei luoghi e gli anni Ottanta sono stati d’ispirazione. Non attacco la religione, ma chi ha tradito l’essenza del messaggio evangelico”

Al suo esordio con un romanzo di oltre 400 pagine, Giovanni Di Marco affronta, con L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi, un tema difficile, doloroso e profondo come quello degli abusi sui minori da parte di esponenti del clero. Tonino è bambino in un paesino della Sicilia negli anni Ottanta: un’infanzia sfortunata, che una serie di lutti conduce nella trappola delle attenzioni morbose di un prete. Come potrà crescere questo bambino? Chi potrà cercare di aiutarlo? Quali tracce resteranno su di lui, ormai grande, rispetto al proprio passato? Giovanni Di Marco se lo domanda, e dà le sue risposte, in una storia torbida che ha il pregio di intrecciarsi alla leggerezza di una narrazione di cui tiene saldo il timone. Dei temi della sua storia, dei personaggi e di scrittura abbiamo chiacchierato con l’autore, tra pagine, tecnologia e riflessioni sulla cronaca.

Giovanni Di Marco, partiamo dal titolo, che dice tantissimo, lasciando intuire scenari e contesti storici, eppure non rivela il cuore del libro e fa scattare molta curiosità. È stata una tua scelta oppure, se no, quale titolo avevi pensato e cosa ti aspetti da questo gancio verso il lettore? 

«Il titolo è nato per gioco. Quando ho ultimato la primissima stesura ho pensato a un titolo da poter dare, ma non c’era un concetto lampante che mi saltasse in mente. Per esempio: se hai a che fare con una vendetta, viene facile “la vendetta di”. Insomma, non trovavo un concetto che mi desse spunto per un titolo e allora, un po’ giocando, mi sono inventato questo. A me piacciono molto i titoli evocativi, per esempio Quando abbiamo smesso di capire il mondo, di Benjamin Labatut (Adelphi, 2020) un saggio romanzato che mi è piaciuto tantissimo. È un titolo che ti promette una risposta. In questo caso la mia speranza è che evochi ma incuriosisca anche: evoca perché ti fa capire che nella parola avversione c’è qualcosa che tiene alta e viva l’attenzione nel romanzo, e poi ci sono due elementi che tra di loro non hanno molto in comune, ceci e polacchi, e magari qualcuno sarà attratto e si domanderà che è successo a questo bambino per detestare i ceci e polacchi. Avevo qualche perplessità non avendo esperienza in merito, ma quando ne ho parlato con la casa editrice sono stato confortato. Ecco, questa è la storia del titolo!».

Quella di Tonino è una storia ruvida, urticante, feroce: inizia con una morte e prosegue con un crescendo di autodistruzione da parte del protagonista. Quale è stata la molla che ti ha spinto a raccontare questa vicenda? 

«Mi sono imbattuto in un saggio, tempo fa – io leggo di tutto – che raccontava di una serie di denunce e vicende reali, soprattutto all’estero, riferite agli abusi sui minori da parte di persone appartenenti alla chiesa. Sono rimasto sconcertato dalla situazione, che ho poi avuto modo di approfondire leggendo altre cose e vedendo un noto documentario della BBC. Così ho trasformato quelle sensazioni sgradevoli in una storia ambientata nei miei luoghi che prende spunto da tante vicende purtroppo reali. Ci sono moltissimi libri che documentano casi di cronaca del genere, inchieste giornalistiche di altissimo livello che hanno testimoniato quello che è accaduto tante volte. Ho citato la BBC ma il Boston Globe ha vinto un Pulitzer per un’inchiesta che è poi diventata il film Il caso Spotlight, vincitore di un Oscar, e ancora il New York Times e altri giornali di fama mondiale hanno sbugiardato il modus operandi della chiesa, pubblicando anche diversi documenti riservati da cui risulta evidente un input preciso dato dai vertici della chiesa: non collaborare con la polizia locale, come veniva detto ai vescovi, non fare clamore per non infangare il buon nome della chiesa. Mai una parola è stata fatta per le vittime degli abusi, considerate quasi complici. Anzi, per chi si fosse azzardato a collaborare con la polizia c’era addirittura la scomunica. Si è fatto poco per le vittime, finendo sempre per proteggere il carnefice. I preti segnalati, sempre per evitare scandali, venivano spostati, ma raramente qualcuno è stato spogliato dell’abito. Questa storia mi è sembrata scandalosa: mi aspetto ben altro da parte di chi da oltre duemila anni si candida a faro della moralità umana, sia dal gradino più alto che rappresenta la chiesa, il papa, che non ha responsabilità dirette ma morali ben precise, ed è da lui che arrivavano gli input, sia dai preti e da chi frequenta la chiesa dal suo interno». 

Tonino, il protagonista e colui che subisce fatti orribili, crescerà lungo questa sorta di romanzo di formazione senza un vero e proprio freno che possa porre un limite alla sua parabola, raddrizzare ciò che è andato storto. Senza rivelare troppo della trama, ci racconti la figura di Tania? Come nasce, ma soprattutto quali sono i legami che ha con Tonino? 

«Tonino è abbastanza sfigato: prima perde la mamma, poi ha la sfortuna di imbattersi in un prete che lo riempie di attenzioni morbose, e finisce così per diventare nuovamente una vittima. Tania, la giovane vicina di casa, è la speranza, colei che prova a tirarlo fuori dalle grinfie del pedofilo e cerca di fargli da seconda madre: è la speranza di farcela. Non volevo trattare solo il tema dell’abuso, ma il trauma subito e le conseguenze che questo lascia per tutta la vita in una vittima. Non è facile superare, impossibile forse è dimenticare queste situazioni, e spesso – è purtroppo cronaca – la violenza genera violenza e chi ha subito traumi così grossi e profondi diventa a sua volta il punto di partenza per nuova violenza. È una situazione che non sempre si verifica ma può capitare: chi subisce violenza poi tende a farla, anche se non dello stesso tipo».

Fin dall’inizio i piani temporali della storia, lo capiamo, sono due: è un romanzo che si dilata a lungo nel tempo, ben più della vicenda narrata. Come lo hai pensato, e come hai articolato la trama? Facci entrare nel laboratorio dello scrittore: hai costruito una scaletta? 

«Non ho costruito una scaletta, ma ho cercato di dare al romanzo una credibilità interna forte. Le atmosfere e i luoghi sono quelli che ho vissuto io da bambino, e dunque sono stato molto a mio agio scrivendo dei luoghi e non ho avuto eccessive difficoltà. Ma dovevo invece trovare escamotage narrativi per rendere la storia credibile, e questo non è stato facile perché, essendo una vicenda autobiografica per il protagonista, dovevo trovare situazioni che rendessero possibili gli approcci del prete col bambino e quindi ho dovuto immaginare tutta una serie di storie e intrecci che dessero coerenza e facessero stare in piedi tutto. Mano a mano che scrivevo, oltre a raccontare l’abuso ho voluto affrontare, come dicevo prima, anche il trauma e il tentativo di superamento, che è molto complicato, è difficile, e volente o nolente finisce per disorientare, lasciando tracce profonde. Un altro elemento decisivo è la vergogna: oggi è più facile denunciare violenze di ogni tipo, si ha voglia di giustizia. Non che lo facciano tutti, ma accade più spesso. Fino a 50 anni fa se un bambino subiva violenza e andava a dirlo alla mamma, finiva spesso che la mamma dicesse “Stai zitto, per carità”. Oggi non credo sia più così, immagino che valga anche per altri tipi di abuso». 

Spazi e tempi di questa storia sono definiti e chiari: un paesino dei dintorni di Palermo, Castelverde, e gli anni Ottanta. È una scelta che ha a che fare solo con il contesto storico più generale che volevi raccontare, o anche una scelta “del cuore”? 

«La location e il tempo, più che una scelta di cuore, sono stati una scelta di comodo. Non avendo esperienza di romanzi precedenti volevo essere a mio agio raccontando dei luoghi, anche se ovviamente ho modificato molti dettagli per non rifarmi in maniera troppo esplicita ai miei luoghi, dunque ci sono tante cose inventate. È chiaro però che i miei luoghi mi hanno dato ispirazione, così come anche gli anni che ho vissuto: nella mia infanzia negli anni Ottanta mi sono trovato a mio agio. Quindi, per quanto in una storia inventata, i luoghi sono stati fonte di ispirazione perché sono un po’ la mia “comofort zone”». 

In questo romanzo tu prendi di mira un male generale, diffuso, che scavalca i confini di luoghi e di tempi, ma anche un male personale, singolo: come si articolano queste due dimensioni, ovvero come sei riuscito a mescolare una denuncia, portata avanti con riferimenti anche giornalistici e cronachistici, con la narrazione in prima persona del protagonista e l’esplorazione della sua personalità?

«Non è stato facile mettere insieme questi due elementi, perché la storia è diventata pretesto per altro. Quella di Tonino è una storia inventata che punta il dito contro la chiesa di Wojtyla e del suo braccio destro Ratzinger, poi papa anche lui, che hanno avuto un atteggiamento omertoso nei confronti del problema della pedofilia, sottovalutandolo forse, inizialmente. Ma la storia ci racconta che alla fine le indicazioni che arrivavano dal Vaticano erano proprio quelle di non creare scandali e di insabbiare: tutte queste cose derivano da enormi responsabilità morali della chiesa e dei suoi vertici. Il mio romanzo è un pretesto per accusare quelli che possiamo considerare responsabili morali, quindi. Sottolineo spesso che il fatto di non essere credente mi ha dato, probabilmente, il distacco necessario per poter puntare il dito contro personaggi così popolari e amati dalla gente. Dall’altro lato tengo a precisare sempre che il mio non è un dito puntato contro la religione, ma contro chi ha tradito l’essenza stessa del messaggio evangelico. Il primo a sentirsi offeso da un prete che tocca un bambino dovrebbe essere il credente stesso!»

Torniamo al tema cardine del romanzo, che è poi la violenza. Che cosa rappresenta la violenza per Tonino, che la subisce ma che spesso ne diventa anche artefice? Hai trovato risposte scrivendo questa storia?

«Ho già accennato al tema della violenza: la violenza genera violenza a volte anche inconsapevole, perché ti incattivisci, a volte, perché pensi “ma che ho fatto di male?” e in qualche modo è come se ti volessi vendicare col mondo per quello che ti è capitato. Da questo punto di vista hai ragione, Tonino subisce violenze e in qualche modo è come se si autoassolvesse quando fa qualcosa di brutto. È come se dicesse: “a me hanno fatto tante cose brutte, dunque sono legittimato a farle anche io”. Non è sempre così, ma come dicevo la violenza genera violenza, non è un modo di dire ma qualcosa che emerge a volte anche dalle storie di cronaca che si leggono: si scopre che i protagonisti da piccoli hanno subito cose oppure sono cresciuti in ambienti particolari, con carenze affettive. Tutto ciò diventa una sorta di leva, di molla perché accadano determinate cose». 

Facci dare un’ultima sbirciatina nel laboratorio dello scrittore: siamo curiosi di come hai scritto questo romanzo che supera le 400 pagine, quanti ostacoli ci sono stati, quali dubbi e perplessità, e quale obiettivo ti ha dato le energie per arrivare alla fine e coronare quello che immaginiamo essere un piccolo grande sogno!

«Dal punto di vista della costruzione narrativa non ho avuto tanti ostacoli: le idee erano chiare e non ho trovato difficoltà nel buttare giù la storia. Inizialmente l’avevo scritta al presente, sempre con il protagonista che raccontava, ma poi mi sono reso conto che era penalizzante per affrontare l’argomento in maniera profonda ed estesa, perché un bambino non può fare certe considerazioni, non ha l’esperienza e la malizia necessarie. Allora ho cambiato, e ho fatto sì che fosse il bambino diventato adulto a raccontare quello che era successo. Il pretesto è una storia di cronaca che funziona anche da appiglio con la realtà. A parte questo cambio tra la prima e la seconda stesura, ogni volta che l’ho ripreso ho fatto qualche modifica. Da quando, invece, ho trovato una persona che mi ha detto “a me piace”, non l’ho più toccato ed è rimasto così da tre anni, e anche in fase di editing è stato modificato poco. Funzionava tutto, evidentemente ho avuto le intuizioni giuste per strutturarlo in maniera tale che quello che era un manoscritto diventasse, senza troppi cambi, un libro vero». 

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