Sotto il cielo di Berlino, il duplice amore del giovane Nabokov

Una donna, amata in gioventù, e la Russia, patria perduta, nei pensieri di Ganin, alter ego di Nabokov nel suo primo audace romanzo adesso riproposto, “Mašen’ka”. Nella capitale tedesca, scampato alla Rivoluzione d’ottobre, il protagonista soggiorna in una pensione con altri spatriati e vaga apatico e privo di desideri. La possibilità di un incontro struggente gli accende ricordi e sogni, ma…

Una fanciulla dalle brume rarefatte del passato e la nostalgia canaglia per la Russia, che in qualche modo è rappresentato dalla giovane, amata un tempo. La solitudine del presente, il rimpianto del passato, l’illusione del futuro, illusione a cui non abboccare. Sono i sentimenti del personaggio principale del primo romanzo di sua maestà Vladimir Nabokov. Volume che ha rivisto la luce in libreria, con il titolo originale Mašen’ka (150 pagine, 18 euro) e la traduzione di Franca Pece, per i tipi di Adelphi. Una lettura rapida, secca, pregna. Un debutto che risale a quasi cent’anni fa, rilanciato in inglese da Nabokov circa mezzo secolo fa, e che suscita ammirazione. Esule russo a Berlino, spatriato, Ganin è in qualche modo l’alter ego dell’autore (sfuggito all’ombra lunga della rivoluzione bolscevica in Russia, malato di ricordi della patria nei primi anni di esilio, meno nel corso della maturità). Nelle prime pagine Ganin si trova bloccato nell’ascensore della pensione dagli arredi scadenti che condivide con altri russi: la beffa del destino è che condivide, al buio, la cabina con Alfërov, marito di Mašen’ka, il suo primo amore, il tempo perduto della propria esistenza, abisso e voragine mai colmati. Lei è in arrivo in Germania, attesa di lì a pochi giorni, dopo quattro anni di lontananza dal marito.

La realtà scalzata dalla dimensione onirica

Il racconto di questa attesa da parte dell’esule, che vaga apatico e privo di desideri per le strade e per le piazze della Berlino degli anni Venti, si intreccia con le memorie di gioventù. Sebbene la prosa di Nabokov non sia quella vertiginosa delle opere maggiori, disincanti, tormenti e fitte malinconie dei vari attori in scena (un pugno di spatriati, «ciascuno un mondo completamente isolato, ciascuno un complesso di meraviglie e di male») sono resi con rara efficacia. Su tutti si staglia Ganin, ex soldato, che prende coscienza di quel possibile nuovo incontro quando il lettore è esattamente a un terzo del libro, quando sembra esserci una cesura netta, tra lo squallido realismo del quotidiano da una parte, la memoria e il sogno dall’altra.

Ganin era un dio che ricreava un mondo ormai morto; a poco a poco lo resuscitava, per accogliervi la ragazza che non osava collocarvi fino a quando non fosse stato interamente completato. Ma la sua immagine, la sua presenza, l’ombra del suo ricordo esigevano che alla fine resuscitasse anche lei – immagine che lui volutamente allontanava, perché voleva accostarvisi a poco a poco, un passo dopo l’altro, come aveva fatto nove anni prima.

Niente psicanalisi, please

Ricordi, visioni, sogni (ma nessuno si azzardi a psicanalizzare, avverte Nabokov nell’Introduzione) scandiscono un romanzo compiuto, ma in qualche passaggio non pienamente decifrabile. Più che azioni o vicende, Nabokov è abilissimo a narrare pensieri e stati d’animo, il non detto ancor più del detto. Il risultato è comunque audace, tenendo conto che si tratta di un’opera prima su cui l’autore non è mai tornato a lavorare da quando l’aveva pubblicata, non ancora trentenne. La donna attesa dal protagonista è anche la sintesi di ogni cosa perduta e non più recuperabile, del passato che non torna, di tutti quegli accadimenti della vita di fronte ai quali si è impotenti.

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