Soma Morgenstern, la saga del mondo ebraico perduto

Tradizione e modernità, spirito e carne, uno zio e un nipote nella Vienna prima dello sfacelo nazista. “Il figlio del figlio perduto” di Soma Morgenstern è un affresco del mondo ebraico prima del buio nazista, il primo capitolo di una trilogia apprezzata, fra gli altri, da Musil e Zweig

Oltre vent’anni fa Soma Morgenstern – nato in Galizia, regione che oggi sarebbe fra Polonia e Ucraina, in una famiglia di ebrei ortodossi, madre e sorelle annientate dagli orrori della Shoah, evento che avrebbe silenziato o quasi la sua presenza sulla scena editoriale – uscì da un cono d’ombra, almeno in Italia, mentre altrove era stato riscoperto anche prima. Un suo libro sull’amico Joseph Roth, pubblicato da Adelphi, era fino a poco tempo fa la sua unica traccia. Soma Morgenstern, fuggiasco da Vienna nel 1938, e infine giunto negli Stati Uniti, dopo essere approdato anche in Francia, è uno scrittore interrotto, spezzato, non sbocciato fino in fondo. La piena consapevolezza degli abomini dei nazisti nel vecchio continente avrebbe inghiottito in larga parte la sua vocazione letteraria. La sua lunga saga familiare, Scintille nell’abisso, articolata in una trilogia di successo, almeno in patria, fu tradotta in inglese nel secondo dopoguerra e fu seguita da un solo altro volume in trent’anni. La consapevolezza e la “colpa” d’essere sfuggito al massacro programmato da Hitler unito ai lutti familiari inceppò la sua produzione, che pure conta pagine di livello assoluto, col dispiegamento di vari registri stilistici.

Una storia vecchissima, senza segnali premonitori…

La prima parte della trilogia di Soma Morgenstern – erede dell’impero asburgico, che scelse il tedesco come lingua della propria scrittura letteraria – vede la luce grazie a una meritoria operazione della casa editrice Marsilio: il primo atto, con la traduzione di Alessandra Luise e Sarina Reina, è Il figlio del figlio perduto (313 pagine, 18 euro), con puntuale postfazione di Wlodek Goldkorn. Un risultato magnifico, sottolineato da alcuni grandi contemporanei dell’autore, come Musil e Zweig; ed è naturale auspicare anche la traduzione dei due volumi successivi. Tradizione e modernità, spirito e carne sono le dicotomie che irrobustiscono la narrazione di Soma Morgenstern, che racconta una storia vecchissima – di uomini pii e di giovani che vogliono conquistare il mondo, di ebrei ortodossi e di altri pressoché laici, le radici e la tradizione da una parte, lo sradicamento dall’altro – e rievoca il mondo (e le sue tante anime) che sarebbe stato sbriciolato dai demoni nazisti, pur tuttavia senza prefigurare quello che altri intellettuali, e non, intuirono: la distruzione quasi totale dell’universo ebraico nell’Europa centrale e orientale. Pochissimi, quasi nessuno, i segnali premonitori della trappola mortale per milioni di persone.

Un confronto generazionale

La famiglia Mohylewski, famiglia di proprietari terrieri della Galizia orientale protagonista di questo romanzo, somiglia a quella d’origine di Soma Morgenstern. Il capostipite ed ebreo osservante Welwel si reca, in compagnia dell’amministratore delle sue tenute, Jankel, a Vienna. Ufficialmente per partecipare al congresso di Agudat Israel, organizzazione che propugna un’educazione religiosa ferrea delle giovani generazioni. In realtà, però, Welwel Mohylewski vuole recuperare alla propria causa la famiglia del fratello minore, Joseph, morto durante la prima guerra mondiale e, prima di allora, convertitosi al cattolicesimo: sua moglie Fritzi e suo figlio Alfred, nipote di Welwel, sono estranei, ma lui, che non ha successori naturali, ha comunque pensato ad Alfred come erede. È lui “il figlio del figlio perduto”, Welwel Mohylewski si imbatterà in lui in modo singolare e grottesco. Il confronto fra il nipote alle prese con una crisi d’identità e lo zio – sulle radici e sull’appartenenza, ma non solo – è il culmine del romanzo che condurrà verso l’epilogo e, poi, verso i due volumi successivi della trilogia…

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