Le ragazze di Edna O’ Brien non moriranno mai

Una delle più importanti scrittrici al mondo e la sua trilogia, un classico, riunita per la prima volta in italiano con una traduzione nuova di zecca. “Ragazze di campagna” di Edna O’ Brien è una voce contro il pensiero dominante, contro il cattolicesimo bigotto dell’Irlanda negli anni Sessanta, contro il feroce maschilismo. Protagoniste due amiche e la loro lotta per l’emancipazione sociale e sessuale…

Più dei nomi snocciolati per il Nobel, più di quelle “laureate” in Scandinavia, più delle trentenni e quarantenni con planetario successo di critica. Più delle coetanee, le nate negli anni Trenta, più della Oates, più della Munro. Forse solo la Byatt potrebbe tenerle testa. Fra le scrittrici viventi Edna O’ Brien è il non plus ultra. Nella quarta di copertina di Ragazze di campagna (689 pagine, 24 euro), ripubblicato da Einaudi Stile Libero, c’è una manciata di illustrissimi giudizi a proposito dell’opera di Edna O’ Brien. Rendono abbastanza l’idea a proposito di questa leggendaria autrice irlandese, di novantadue anni suonati, in auge dagli anni Sessanta, che ha pubblicato il suo libro più recente quattro anni fa. La sua mitica trilogia, per la prima volta disponibile in italiano in un unico volume, è un libro che non può mancare nella biblioteca di un lettore che si rispetti. Ragazze di campagna comprende l’omonimo primo romanzo (pubblicato in Italia nel 1961, da Feltrinelli), La ragazza sola e Ragazze nella felicità coniugale. La traduzione di Giovanna Granato è un’eccellenza nell’eccellenza. Restituisce un senso di freschezza e ribellione, insita in ogni riga del romanzo, inno contro l’Irlanda più bigotta, inno autentico e in largo anticipo sul presente, in nome dell’emancipazione, delle pari opportunità, dell’autodeterminazione femminile.

Opposti che s’attraggono

Scritto in poche settimane, il primo libro della serie, con cui Edna O’ Brien si presentò al mondo fra il 1960 e il 1964, prende a picconate la patina di perbenismo e le convenzioni della società irlandese dell’epoca, soprattutto la cappa oppressiva della chiesa cattolica. Come? Con una storia (autobiografica e romanzesca) che va in direzione ostinata e contraria rispetto a condizionamenti e imposizioni di natura religiosa, con un percorso di emancipazione sociale e sessuale che si contrappone al bieco, gretto maschilismo dell’Isola verde. E con uno stile solo apparentemente semplice, pieno di malinconia e di ironia, facendo i conti con piccole e grandi vittorie, ma anche con dolori e delusioni. Protagoniste, alla fine degli anni Cinquanta, due giovanissime amiche, Kate Brady e Baba Brennan, decise ad affrancarsi da un microcosmo in cui non crescono, non possono esprimersi, in breve non possono vivere un’esistenza che, invece, ritengono debba essere vissuta pienamente. Il diritto di vivere liberamente, di infischiasene di certo genere maschile e dei moralismi è la colonna vertebrale di un’opera che scatenò polemiche e causò non pochi grattacapi a quella che allora era una debuttante di belle speranze. Baba è estroversa, sfrontata, anche scurrile, Kate, che è la voce narrante del primo e del secondo romanzo, più emotiva e sognatrice, amante della lettura. Opposti che s’attraggono – alle loro spalle famiglie che nascondono dipendenze dall’alcol – entrambe espulse da un convento di suore, provano ad andare alla conquista delle mille luci di Dublino. Vitali, ingenue, anno a caccia di guai, di feste, del grande amore.

La conferma

Ne La ragazza sola, secondo capitolo del trittico che negli anni Sessanta vide la luce in Italia per Rizzoli, i riferimenti espliciti al sesso, cose che oggi fanno quasi sorridere, furono nuove randellate al vecchio mondo di mogli remissive e mariti violenti, a un mondo di pregiudizi, a certa “civiltà” contadina, agli irlandesi che brandivano la bibbia (e magari dietro anche la bottiglia), alla stessa famiglia di Edna O’ Brien che non gradì successo, sovraesposizione mediatica, sussurri e grida. Pur nella semplicità della prosa, ancor più che nella prima parte della trilogia, colpiscono, rapiscono, dettagli, stati d’animo, sentimenti, pensieri, paesaggi, evocati in modo magistrale. Se Ragazze di campagna era una sorpresa assoluta, La ragazza sola fu semplicemente una conferma e garantì all’autrice irlandese una certa sicurezza economica, quella che non la fece vacillare da moglie divorziata solo qualche anno più tardi.

I bilanci dell’età adulta

L’epilogo dal titolo evidentemente ironico, Ragazze nella felicità coniugale, proposto in prima battuta dalle edizioni e/o, solo nel 1990, alterna capitoli in terza persona, puntati su Kate, ad altri in cui la voce concretissima, e spesso spassosa e tagliente, di Baba, va avanti in prima persona. È un romanzo di bilanci, più amaro e crudo rispetto ai precedenti: il difficile approdo all’età adulta, per le due amiche, passa da Londra, metropoli per la quale hanno lasciato Dublino, e attraverso le speranze deluse di due matrimoni anonimi e impalpabili. Kate fa i conti con Eugenie, un marito gelido, arido, ipocrita, in una periferia grigia, e cercherà la felicità in un’altra relazione, Baba proverà pragmaticamente a consolarsi con le sostanze del ricco e volgare consorte, Frank. È un romanzo dove si paga pegno, si fanno i conti con gli errori, si guarda in faccia la realtà con la disillusione propria dell’età adulta. Eppure queste due ragazze, diverse, in qualche modo contrapposte, ma amiche vere, a lettura ultimata, ci restano addosso. E non è campata in aria l’idea che non moriranno mai.

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