Amore fatale, male e morte. Riscoperto il Minotauro di Occhiato

Mole colossale, tessuto linguistico vertiginoso e immaginifico, merita di diventare un classico “Oga Magoga” del calabrese Giuseppe Occhiato, scritto e riscritto nell’arco di mezzo secolo, tra epica classica, citazioni bibliche, opera dei pupi, echi cavallereschi, realismo magico, tra sacro e profano. Un soldato della seconda guerra mondiale alle prese con un redivivo Minotauro, un’ammaliante novella Arianna, un duello spavaldo lanciato alla Morte, il sipario sul mondo contadino. Non una trappola per il lettore, ma un’avventura meravigliosa…

Gli ingordi della letteratura vengano a banchettare con uno dei pochissimi volumi leggendari e misconosciuti del Novecento italiano, Oga Magoga (1.299 pagine, 29 euro) di Giuseppe Occhiato, un lautissimo pasto offerto da Il Saggiatore: casa audace e fuori da ogni regola, se si guarda all’attuale contesto editoriale del Belpaese. I Formenton e il direttore editoriale Andrea Gentile – che rivendica identità e progetto della sua “creatura” nelle pagine introduttive – non paghi di avere pubblicato, nel 2021, il caleidoscopico Solenoide di Mircea Cartarescu, autore che nei prossimi dieci, quindici anni sarà sempre fra i papabili per il Nobel, si sono presi il lusso di resuscitare un libro ancora più mastodontico, pastiche che sembra infinito e inventa una vertiginosa, non incomprensibile ma ricca, lingua fra calabrese e italiano, di un autore molto meno fortunato del romeno Cartarescu. Oga Magoga del calabrese Giuseppe Occhiato va oltre le 944 pagine di Solenoide, ed è una lettura che, per parafrasare il poeta John L., ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti, un’esperienza che mette alla prova e dura parecchi mesi, almeno per chi conduce un’esistenza mediamente incasinata nell’anno del Signore 2023; per l’autore è stata un’esperienza di scrittura totalizzante, ha sacrificato la propria vita, impegnandosi per per oltre mezzo secolo a partire dagli anni Cinquanta, con la prima pubblicazione datata 2000.

Una grandezza da svelare

Merita di diventare un classico il quasi ignoto Occhiato, che taluni paragonano a Stefano D’Arrigo, ed è vero che metafisicamente e linguisticamente non sono poche le affinità fra le loro mastodontiche creature. Classe 1934, calabrese di Mileto, Giuseppe Occhiato diventò orfano di entrambi i genitori a tre anni (il padre morì di malaria, la madre a causa di un incidente domestico), fu cresciuto da una di quelle nonne tutt’altro che colte, ma impareggiabili nell’arte dell’affabulazione, ed investito, da bimbo, dai danni della seconda guerra mondiale, dai bombardamenti degli Alleati che lo costrinsero a sfollare e ad abbandonare casa. Il trauma bellico fu, in qualche modo, centrale nell’infanzia, divenne ossessione letteraria già a vent’anni, prima della laurea in Lettere Moderne a Messina, miccia autobiografica già quando le stesure embrionali di Oga Magoga erano quelle di un poema in versi, diventato successivamente un volume interamente in dialetto e infine un testo in prosa ibrida, in cui la dimensione poetica resta viva, la versione definitiva, strabiliante. Trapiantato in Toscana negli anni Ottanta, Giuseppe Occhiato fu insegnante di storia dell’arte e, successivamente, preside. E, culmine delle sue pubblicazioni, concepì con forsennata abnegazione un’opera per cui non è sufficiente la definizione di “romanzo-mondo”, poderoso e monumentale libro che non bisogna tenere in bella mostra con gli altri nella libreria di casa, ma per cui bisogna trovare il coraggio e l’emozione di bere le pagine, un’avventura felice, non una trappola…

Quel disertore che sembra Teseo

Dietro l’immensa mole e l’intrecciatissimo tessuto verbale di Oga Magoga – curatela di Emilio Giordano, come per l’edizione del 2018 realizzata dalla sigla romana Gangemi, successiva alla primissima pubblicazione, in tre volumi, diciotto anni prima per l’editore calabrese Editoriale Progetto 2000 – c’è un romanzo inestimabile, epico e senza tempo, ambizioso, che racchiude una storia totale della terra calabra e la racconta attraverso la vita di Rizieri Mercatante, ebanista di ventitré anni e, nell’esercito, sergente di artiglieria che nell’estate del 1943 si trova in Sicilia, vicino Gela, e poi rientrerà in Calabria, inizialmente in licenza, poi da disertore: un “everyman” che – a differenza di D’Arrigo – richiama più Teseo che Ulisse e la cui avventura è scandita dalle stelle che danno i nomi alle quattro parti del libro, una zingara ha predetto al protagonista bambino che le avrebbe incontrate; nel corso della guerra «sessinatrice» torna al paese natale in licenza a causa di una ferita, terrorizzato da un minotauro che si aggira proprio da quelle parti, condizionando le vite dei contadini. Tra canto epico e sintassi parlata, fra italiano e dialetto, Occhiato – che in un opuscolo successivo alla prima pubblicazione, sorta di istruzioni per l’uso, indicò il proprio pantheon: Ariosto, Garcia Marquez, Joyce, Melville, Omero e le pagine del Guerrin Meschino – crea una lingua e cuce pagine ridondanti di aggettivi ed elenchi, trascina il lettore in abissi di bellezza o ad altezze rarefatte. Creature reali, nascoste o immaginate popolano le pagine, moltitudini di voci rimbombano, con tanto di echi dei poemi cavallereschi e dei miti classici, dell’opera dei pupi e della passione di Cristo, senza resurrezione. È il trionfo immane dell’invenzione, dell’immaginazione, della fantasia, del cristiano e del pagano, di mille sentieri da percorrere con gli occhi e con la mente, l’affermarsi della potenza espressiva di una scrittura inattuale, di un’impresa colossale.

Una via crucis

Fra tutti, il nostro prediletto era Rizieri. Era il cugino nostro adorato, il più caro e carezzoso, bello e forte per com’era, con quella capellatura che gli luceva in mezzo alla fronte come una spera di sole; sfizioso e galante, proprio come l’antico paladino franco al quale la mamma, bonanima, l’aveva annomato.

La scomparsa, dell’amico e commilitone Mitriuzzo Sparacino sotto le bombe alleate, convincerà Rizieri Mercatante – la voce narrante è un suo giovanissimo cugino – a ingaggiare una sfida plateale e spavalda con la Morte cinica e incontenibile (“Pupara polimorfica” o “Damazza” sono solo due delle tantissime definizioni che Occhiato gli appioppa), una sfida truccata come una partita a carte, un duello silenzioso e immarcescibile, una sorta di via crucis, che lo vedrà certamente soccombere. Nelle campagna attorno al luogo natale, dove sono sfollati tutti i suoi compaesani, s’aggira un “minatòtaro”, il mitologico Minotauro, simbolo del male irrazionale e irriducibile, svegliatosi da un lungo letargo: allevatori e contadini provano a irretirlo e a compiacerlo offrendogli carcasse di animali. Il barbiere, don Sidorio Carrà, profetizza anche la comparsa della sorella del Minotauro, la “zingarellota” Orì, novella e ineffabile Arianna vendicatrice che, d’intesa con la Morte, fa perdere la testa a Rizieri, nonostante questi sia impegnato con la fidanzata Dianora, quintessenza della purezza, “serena dolcezza” e “candore”, in contrasto con le tante donne-fattucchiere che popolano queste pagine. È l’estate del 1943, ad agosto e questo amore straziante e fatale è l’inizio della fine e la storia scivolerà verso una tragedia apocalittica. Immediato antefatto degli eventi di Oga Magoga, spaccato storico del romanzone sono spasmi e singulti del fascismo (“quella gran castellana di fascio che aveva infasciato l’Italia intera e, con quello, forse pure alla fine dello sdiloggio magno che stava struggendo la terra”) e l’indignazione contro il fascismo che ha condotto alla “guerrazza”, alla “scellerata micidiante della carne cristiana”.

Il mistero della vita, l’enigma della crudeltà

Opera polifonica, stratificata ed epica di un microcosmo che si fa macrocosmo, con ambizioni universali, il libro di Occhiato, tra flusso di coscienza e digressioni è un racconto del viaggio, di un viaggio di ritorno, un racconto corale del tempo immobile e sospeso, una sinfonia lenta e maestosa, il sipario di un’epoca, il rimpianto per l’esaurirsi di un mondo, quello contadino, che non c’è più. La scrittura creatrice ed evocatrice, la dimensione poetica del gigantesco tomo, il mistero della vita, l’enigma della ferocia e della crudeltà, l’inabissarsi dell’innocenza, oltre a una creatività lessicale – dall’eloquio popolare al virtuosismo raffinato – mai fine a se stessa, ma al servizio dell’opera, fanno di Oga Magoga (il riferimento è alle figure bibliche Gog e Magog, presenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento) un cunto speciale dalla lingua vivissima, una rievocazione fantasmagorica, uno di quegli eventi a cui è meglio partecipare per tempo, e di Giuseppe Occhiato un autore pronto per il canone dei più grandi del Novecento, che attende solo di essere scoperto e apprezzato dalla critica, ancor prima che dal pubblico.
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