Lattanzi, la ricerca vana di un figlio come inno alla vita

Con linguaggio sincopato e chirurgico in “Cose che non si raccontano” Antonella Lattanzi scrive del desiderio di maternità e di tentativi falliti, di gioia e tristezza, di un cammino tortuoso funestato anche dalla pandemia. Non c’è lieto fine, ma s’assiste comunque a una rinascita…

In questo libro, in questo diario-nondiario, Antonella Lattanzi, autrice di Cose che non si raccontano (216 pagine, 19 euro), edito da Einaudi, affronta con coraggio e con spregiudicata spietatezza il tema della ricerca di un figlio. Una storia difficile quella che descrive, una storia dolorosa, traumatica, a tratti perfida e persino sfortunata: un racconto lungo poco più di un anno in cui l’autrice barese ripercorre tutte le tappe di un cammino tortuoso e complicato, aggravato e funestato dai mesi apocalittici della pandemia, dove la voglia di rimanere incinta naufraga più volte sugli scogli di un destino beffardo e maligno.

Una montagna russa

Tutto è spiattellato senza particolari pudori, con grande lucidità e con un linguaggio sincopato, suggestivo, chirurgico e dettagliato. La ricerca della maternità, questo processo che dovrebbe essere naturale, ma che invece si trasforma in un incubo da tenere nascosto, da affrontare con paura e con necessaria “speranza nera”, diventa allora una montagna russa in cui si alternano momenti di ilarità e gioia profonda e momenti di sconfinata tristezza, in cui i sensi di colpa giustificano il fallimento di ogni cura e l’inevitabile caduta verso il baratro, al quale solo il suo lavoro da scrittrice sembra offrire un piccolo sostegno. Ogni dettaglio viene riletto alla luce di questo dramma personale, minando e alterando anche il rapporto con il compagno, le relazioni con gli amici, i contatti con la famiglia di origine.

Superare senza cancellare

La Lattanzi (nella foto di Cristiano Gerbino, tratta dalla pagina Facebook della scrittrice) sa essere molto cruda, non cede ai gentilismi e ai finali da “vissero felici e contenti”. Però, proprio in questa sua consapevolezza, mai prona al vittimismo o al pietismo, troviamo il conforto di un’opera che, nonostante le tragedie di un fato avverso e di una sanità talvolta disumana, inneggia alla vita, alla sua forza prorompente e a quell’energia capace di rimescolare tutto, di superare senza cancellare, di far rinascere nuovamente davanti allo spettacolo settembrino del mare.

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