Area 22. Giancarlo Anello e la santità giuridico-politica

Ne “L’uomo abitato da Dio. Chassidismo e giustizia” Giancarlo Anello, attraverso la novella “Yoshe Kalb” di Israel Singer, ripercorre il chassidismo delle comunità ebraiche dell’Europa orientale. Corti rabbiniche a parte, il santo, in quanto giusto, tzadik, non può essere separato dalla giustizia della comunità, la sua presenza eccezionale diventa la più autorevole fonte per amministrarla. Una nuova puntata della rubrica Area 22 (qui tutti gli articoli)

La Legge di Dio non è più in Cielo, ma in terra; e l’uomo di Dio è colui che oltrepassa la soglia del diritto per adempiere una misura più alta di giustizia all’interno della comunità: ed in questo, egli è tzaddik. Santità e ordine sociale, mistica e devozione popolare: tutto ciò troverete in questo bel libretto di Giancarlo Anello edito da Il MelangoloL’uomo abitato da Dio. Chassidismo e giustizia (119 pagine, 15 euro). Il testo, mirabile per sintesi narrativa e accuratezza delle fonti, ripercorre il chassidismo delle comunità ebraiche dell’Europa orientale attraverso la fruizione di una ben precisa storia letteraria, ovvero la novella Yoshe Kalb, scritta nel 1933 da I.J.Singer recentemente tradotta e pubblicata da Adelphi (2014).

La forma letteraria che smussa il diritto

Non farò qui una sintesi della storia di Yoshe ‘il tonto’, cosa che peraltro fa l’autore nel terzo capitolo ricostruendo brevemente la genesi dell’opera per poi cercarne il senso nel contesto. Nei due capitoli precedenti, Giancarlo Anello ha l’arduo compito di introdurre il lettore poco avvezzo alle varie modalità con cui l’ebraismo recepisce la Torah nelle sue Ghemarah: esse sono l’insieme delle sue interpretazioni che vanno a ‘completare’ la Legge, dividendosi a sua volta in halakhah, precetti rabbinici tratti dalla Bibbia o dalla tradizione orale, molti dei quali finiti nei Talmud, e haggadah ovvero narrazioni, storie e leggende di cui molte, col passare dei secoli, raccontano vicende processuali particolarmente significative, come quella ripresa da Singer. “Nella tradizione ebraica, quest’ultimo tipo di fonte letteraria può indicare profonde verità giuridiche, nonostante la forma narrativa e discorsiva in cui essa si esprime sia lontana dalla tipologia delle disposizioni del diritto moderno” (p.18). Uno degli scopi del libro infatti è quello di inquadrare la novella Yoshe Kalb nella duplice ermeneutica di ‘diritto nella letteratura’ e ‘diritto come letteratura’, (cfr. pp. 22-23), così com’era tipico dei contesti giuridici premoderni di molte società. La forma letteraria analizza e smussa il diritto, lo spalma nell’esistenza per mezzo di storie esemplari, lo consegna all’esegesi degli uomini che le tramandano. Inoltre, nell’ebraismo della diaspora, da un certo momento in poi le storie processuali divennero un vero e proprio ‘topos’, quasi un genere letterario a sé stante, attraverso cui nessuno sfugge alla sapienza di una Legge incarnata nella comunità storica che la fa rivivere. Tutti potevano essere condotti ai tribunali di queste microcomunità, che con alterne fortune hanno goduto di una certa autonomia. Si narrava che perfino Dio potesse essere messo alla sbarra, e ricevere una sentenza avversa (come testimonia un’altra gustosa novella, riportata dall’autore a pagg. 63-65).

L’irruzione del movimento chassidico

Giancarlo Anello non si limita a presentarci questa particolare forma di giurisprudenza tradizionale, o semplicemente riproporre la fortuna di queste storie, ove la verità storica sfuma infinitamente per lasciar spazio ad una Verità infinitamente più importante. Come si legge sin dal titolo, la singolare novella Yoshe Kalb funge solo da cavallo di Troia per raccontare l’irruzione del movimento chassidico, e di come questo abbia sconvolto la stantia esistenza delle comunità ebraiche dell’Europa orientale. All’interno di queste, sino al diciassettesimo secolo il diritto era amministrato da corti rabbiniche, che nei casi più gravi o eccezionali potevano riunirsi in sessione plenaria sino a raggiungere un numero di 70 membri provenienti da tutta la regione, con l’evidente intento di richiamare il prestigio e l’autorità dell’antico Sinedrio di Gerusalemme. Il rabbino, lo studioso del Talmud ed interprete dell’Halakhah, insieme ai suoi pari, era depositario dell’ordine della comunità e della riverenza di tutti, che nel frattempo foraggiavano in maniera cospicua il loro mantenimento. Esistevano sin dal medioevo santi, mistici e cabbalisti, ma erano sostanzialmente in disparte rispetto alla vita della comunità e all’amministrazione della sua giustizia. Ed eccoci al punto – secondo l’autore: il santo, in quanto giusto (=tzadik) non può essere separato (=kadosh) dalla giustizia della comunità, ma proprio la sua presenza eccezionale diventa la più autorevole fonte per amministrare la giustizia. Una santità politica diremmo, perché non più fine a sé stessa in quanto “i particolari poteri spirituali diventano funzionali all’autorità temporale che egli esercita su una comunità” (p.57). Più in generale, bisogna però chiarire che “il chassidismo, piuttosto, fu un movimento di resistenza in senso ideale e a-politico: da un lato contro la cultura religiosa maggioritaria e istituzionale, dall’altro contro l’assimilazione e l’autorità dei gentili” (p.59).  Anche per i misteri della Kabbalah, viene il tempo di uscire dalla ristretta cerchia di adepti presso cui circolava:

prima dell’avvento del Besht (appellativo con cui spesso è chiamato Baal Shem Tov, 1700-1760, fondatore del chassidismo, n.d.r.), il termine chasid caratterizzava i mistici e gli esperti della qabbalah. Con la diffusione delle idee e della forma di religiosità propria del Besht e dei suoi successori, questo termine iniziò a contrassegnare la persona comune che avvicinava sé stessa ad una guida religiosa- quest’ultimo uno tzadik– cosicché quel lemma non distingue più le èlite religiose e mistiche dalle masse (…). Il chassidismo fu dunque un movimento che fin dai suoi inizi conobbe due tipi di contenuti paralleli: da un lato la continuazione dell’insegnamento della tradizione qabbalistica medievale, dall’altro un movimento popolare che ruotava attorno alla figura carismatica dello tzadik… (p.50)

Sincretismo ed “eresie”

Nelle pagine a seguire, Giancarlo Anello passa in rassegna i punti principali della teologia chassidica, commentandoli brevemente: il principio di immanenza del Divino innanzitutto, e il ruolo di ‘soccorritori e mediatori cosmici’ degli tzadikim (parole tratte da Martin Buber). Il particolare senso di giustizia sociale delle comunità dei chassidim (giustizia cum sensus fidei), che sarà ripreso anche dall’autore negli ultimi capitoli del libro, quando farà notare l’influenza da remoto di Mosè Maimonide nel chassidismo. La giustizia non è mai fine a sé stessa perché la verità non è mai arida o faziosa: è allora il compromesso che concretizza la giustizia sulla via della Pace e della Carità, valori che la superano e la orientano (cfr. pp. 88-89). Un altro dei temi cardini del chassidismo è infatti l’insufficienza della stretta osservanza della Legge, anche al fine di raggiungere quella gioia che il servizio prestato a Dio deve restituire al pio credente (questa è la preghiera del cuore, tipico tema della devotio moderna). A proposito, man mano che leggo il testo mi rendo conto di come il chassidismo sia stato un movimento religioso parecchio sincretista, permeando idee che sul piano mistico riportano l’ebraismo più vicino alle altre tradizioni religiose. Ad esempio, nella nuova capacità dello tzadik di interpretare la legge al di là di essa, della sua lettera, “attraverso l’intuizione carismatica e soprannaturale che ricompone l’armonia della comunità, anche a scapito della verità dei fatti, persino tralasciando l’Halakhah” (p.107). Questa è un caratteristica che avvicina il Santo al maestro del Buddismo Zen, e alla sua capacità di raggiungere l’illuminazione nell’attimo, e di trasmetterla ai seguaci attraverso delle storie altrettanto…illuminanti (e anche in questo, ci rivedo la tradizione chassidica e suoi grandi epigoni, quali Buber). Il chassidismo infatti mette a nudo il dissidio tra una santità che insegue l’ideale essoterico della Torah (kedushah) che cerca di realizzare il più possibile la legge così com’è, e un ideale esoterico della Torah (chasiduth), che si ispira a “una più alta perfezione spirituale, e può non solo completare la Legge ma risolversi, in determinate circostanze, in un vero e proprio correttivo (p.15)”. Avete inteso, ma io vi dico .…pur pienamente consapevole che Anello voglia solo indicare quel ramo profetico e non farisaico della religiosità ebraica, io voglio assumermi la responsabilità dell’eresia: Gesù di Nazareth fu allora uno Tzadik-Chasid ante litteram, ancor prima che alcuni iniziassero a proclamarlo mashiah. PS: uso il termine eresia metaforicamente ed in maniera iperbolica, sia chiaro. Prima che ci rimetto il posto di lavoro…

Tre snodi teologici

A costo di dilungarmi, devo però quanto meno menzionare tre snodi teologici che Giancarlo Anello ha messo in rilievo, anche come chiavi ermeneutiche per comprendere a fondo la novella Yoshe Kalb. La prima idea che scopro tanto sorprendente quanto…divertente, se penso all’esito narrativo e processuale della novella in questione (no spoiler!), è quella del gilgul. Per me rappresenta una novità assoluta da approfondire. Esso sarebbe “l’eterno pellegrinare, una versione della trasmigrazione delle anime diffusasi nel chassidismo che aveva modificato le credenze sulla morte delle comunità ebraiche nell’Europa orientale” (p.96). Ne parla diffusamente Scholem ne La figura mistica della divinità, edito in Italia da Adelphi. Ma pare che fosse un’idea ben diffusa, e che riguardi la mancata espiazione da parte di alcune anime di determinati peccati che riguardano la sfera della sessualità e della fedeltà coniugale, o viceversa di “mancato adempimento dei doveri di procreazione”! (p.101). Idee simili iniziarono a diffondersi nell’ebraismo (che ne era estraneo) per contatto con l’Islam a partire dal nono/decimo secolo, per poi finire direttamente nello Zohar, redatto nel tredicesimo secolo (cfr. p.99). Il concetto di devekut, invece, viene tradotto secondo la lezione di Scholem con la parola ‘comunione’ (cfr. pp. 54-55). In maniera fluida, questo termine indica sia l’Unio mystica dei Santi, come nelle altre tradizioni monoteistiche, sia la pietà e la fede interiore dei chassidim che indirettamente, e sempre per mezzo degli tzadikim, possono ascendere con la loro anima verso Dio. Ma cos’è che rende speciale la posizione degli tzadikim? Qualche loro virtù eroica? Una sorta di predestinazione? No. L’assunto è l’incorporamento dello Spirito da parte dello tzadik (cfr. p.52, 78), della presenza speciale, fisica in loro del Ruah ha-kodesh, cioè dello Spirito Santo, o del ruh al-qudus, come dicono i musulmani. Ecco perché quando si parla di una guida carismatica della comunità chassidica lo si dice in senso specifico. Ecco cosa giustificava, solo in loro, una capacità decisoria basata sulla mera intuizione extra legem. Ecco perché lo tzadik è l’uomo abitato da Dio, come titola Giancarlo Anello il suo libro, avvicinando la guida chassidica ai grandi sufi quali Gialal al-Din Rumi, e alla sua celebre lirica “l’Uomo di Dio”:

L’Uomo di Dio è per Realtà sapiente,

l’Uomo di Dio non ha dottrina di libro.

L’Uomo di Dio è oltre fede e non-fede

l’Uomo di Dio è oltre il male e il bene.

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