Area 22. Keren David, le gemelle e la propria identità…

Mai come in “Le cose che ci fanno paura” di Keren David capita di leggere qualcosa di ebraico che sia così intelligentemente messo alla portata di tutti come una costante matematica, anzi, fenomenica. Le due ragazzine al centro della scena due chiavi possibili attraverso cui ciascuno può aprire una porta verso se stesso chiedendosi se, di fatto, abbia mai provato a rispondere a domande importanti che hanno a che fare con la propria storia…

Non so se vi è mai capitato (ci giurerei!): non appena avete imparato una nuova parola, di sentirla poi pronunziare più volte durante la giornata; non appena avete conosciuto un personaggio che per gli altri era già famoso, tranne che per voi, da un certo punto in poi cominciate a sentirne parlare in giro, come se fosse diventato famoso solo quel giorno; o ancora, non appena si scopre qualcosa su se stessi, o anche solo la si immagina, ecco che – davvero – sembra che tutto il mondo cominci ad accorgersene, a ronzare intorno a questa scoperta, a suggere verità da ciò che per te, magari, fino a due secondi prima altro non era se non il mistero per eccellenza. Del resto, alla domanda chi sono io veramente?, non si finisce di rispondere mai.

Ma, anche quando ci prendessimo il tempo necessario per formulare una risposta autentica, onesta, che davvero fosse capace di attraversare come la pioggia tutti gli anfratti delle tegole e della soffitta prima di diventare una pozzanghera nel salotto, dove potersi specchiare, ci accorgeremmo che c’è un mondo, fuori, che questa risposta ce l’ha già pronta da un pezzo.

Che crede di averla. E che è pronto a fartela conoscere.

Ecco, appunto, Le cose che ci fanno paura (Giuntina, 255 pagine, 15 euro). Una parte, almeno.

Keren David, che conosce già la dolcezza di qualche bella soddisfazione in ambito letterario, non scrive certo con l’intento di sfornare la solita lettura facilmente tematica a tutta presa, che con certi argomenti non richiederebbe altro se non un minimo di fatica editoriale; al contrario, si ha la sensazione di leggere qualcosa di assolutamente originale, proprio perché, come suggerivo pocanzi tra le righe, ciò che il lettore legge coincide con qualcosa che viene scoperto per la prima volta. La collocazione introspettiva all’interno dei due personaggi portanti, le due quattordicenni Evie e Lottie, che sono anche sorelle, è così intima e profonda (senza bisogno di diventare freudiana) che tutto ciò che vieni a sapere, lo vieni a sapere con loro e insieme a loro.

Quando essere sorelle non basta ancora

Nell’intreccio di una storia come questa, piantata come un alberello su un terreno così quotidianamente borghese da farlo somigliare all’orticello (delle idee) che abbiamo tutti dietro casa (se non addirittura dentro), imperniare il racconto sui punti di vista di due sorelle può non bastare ancora, tanto più quando si ha a che fare con due caratteri così diversi.

E allora ecco che subentra, come un genesiaco espediente sempreverde, l’elemento originale che – paradossalmente – può creare diversità là dove, magari, si pensava che ogni diversità fosse stata annullata fin dal grembo di una madre (che è la storia prima ancora che la mamma): Evie e Lottie non sono solo sorelle; sono gemelle!

Nell’economia di un racconto alla scoperta delle proprie radici, la genetica uguaglianza di queste due giovani protagoniste diviene ancora più eloquente e carica di contenuti nel momento in cui, già dalla prima pagina, ci viene riferito che la loro diversità (l’una è solare, simpaticissima, energica; l’altra silenziosa, timida, introversa) è suggellata da un legame di sangue molto più intenso del normale; perché, che due sorelle siano diverse ce lo aspettiamo tutti, ma la diversità tra due gemelle diventa qualcosa di tremendamente biblico, e dunque rivelatore. Averle create così diverse, come il sole e la luna, tanto diverse da mandarle a scuola dalle parti opposte del cielo, non può che essere stato, per il Cielo, un atto di creazione! È la performatività di ciò che è simile proprio perché non può essere uguale, e che proprio per questo ti riporta all’uno. Il loro cammino comincia in due, ma si fa una sola strada pur mantenendosi sulle corsie diverse della stessa carreggiata.

Ho avuto come l’impressione che, nella personale ed intima scoperta che Evie e Lottie fanno di se stesse, e che noi facciamo insieme a loro, sia come ripresentato l’antico motivo di Esaù e di Giacobbe, questa volta non mortificato dal conflitto (se non quello che ciascuna vive con la propria intima storia) ma solo da una diversità di fatto che, però, non diventa motivo selettivo di esclusività ma, al contrario, varietà e possibilità universalista: non solo, cioè, le due protagoniste sono chiamate a vivere insieme il loro Jabbok (che qui traccia il confine non dell’una verso l’altra, ma di entrambe in direzione del mondo), e quindi a trovarsi complici e solidali nonostante siano così reciprocamente diverse, ma anche qualunque persona – trovandosi a poter condividere con loro una qualche forma di persecuzione o di problematica accettazione di se stessa – può certamente immedesimarsi in loro, anche senza essere ebrea.

Mai come in questo libro capita di leggere qualcosa di ebraico che sia così intelligentemente messo alla portata di tutti come una costante matematica, anzi, fenomenica; una costante anti-etnica: non appena subentra il sospetto di una qualche appartenenza, di una qualche “diversità”, ecco che comincia una duplice battaglia: quella contro il nemico ostile che pensa di sapere tutto di te pur senza conoscerti, e quella – prima ancora – contro l’angelo della tua coscienza, che ti spinge a muovere battaglia contro la parte vigliacca di te stesso, che non vorrebbe muoversi, che non vorrebbe esporsi, ma che è necessariamente chiamata a contrarre la slogatura di una benedizione e di un nome pesante: Israele. E questa è una lotta che, semplicemente, ogni essere umano è chiamato a muovere contro la parte più difficile e oscura di se stesso.

Insomma, la griglia simbolica è talmente ben costruita e funzionante che, se anche questa cosa della gemellarità su sfondo biblico fosse tutta una mia suggestione, mi chiederei cosa il libro nasconda di così fortemente potente da saperla tirare fuori! In altre parole, la storia funziona che è una meraviglia, perché attiva tutte le parti immote che altro non aspettano se non di poter vibrare e mettersi in risonanza con altre esperienze e con altre acquisizioni.

Beh… cosa in fondo ci si aspetterebbe dalla buona letteratura, se non proprio questo?

Ce n’è davvero per tutti

Neppure si può dire che le due protagoniste rispondano a categorie troppo selezionate perché ciascuno non possa leggersene in qualche modo coinvolto. In effetti, Evie e Lottie stazionano sugli estremi di un tipico segmento adolescenziale, facile da collocare e anche da immaginare; ma ciò non vuol dire che, per sentirsi coinvolti dalla loro storia si debba necessariamente somigliare tutti all’una piuttosto che all’altra, o viceversa. Al contrario, la loro collocazione estrema, sui due versanti delle due così differenti personalità, è strategicamente inclusiva; come a dire: tu potresti stare in mezzo a loro, da qualche parte, in uno degli infiniti punti tra questi due estremi. E questa strategia diviene, allo stesso tempo, una metatestualità convincente ed efficace perché, mentre sul piano narratologico serve semplicemente a descrivere due personaggi, psicologicamente aiuta a comprendere come il tema sviluppato all’interno della storia superi per sua stessa entità il loro punto di vista, travalichi le pagine, esca dal perimetro del romanzo e si lasci riconoscere come realtà.

Insomma, le due ragazzine sono come due chiavi possibili attraverso cui ciascuno può – tanto con l’una quanto con l’altra, a seconda di quale chiave gli appaia più comoda da impugnare sul piano della propria sensibilità – aprire una porta verso se stesso chiedendosi se, di fatto, abbia mai provato a rispondere a domande importanti che hanno a che fare con la propria storia, e con il rapporto che ciascuno di noi ha con la propria storia. E quanto ci faccia paura questo rapporto.

La verità è una strana complice

La verità circa la propria storia (forse, perciò, la prima delle tante cose a farci paura) è il personaggio più invisibile e più attivo di questo romanzo. Quando, con il procedere della lettura, il cerchio sembra chiudersi attorno alle protagoniste e alla loro famiglia, costringendole a dover fare i conti con chi pretende la verità, ecco che la verità stessa, prima che chiunque altro, fa i conti con loro.

Evie e Lottie cominciano ad essere perseguitate dall’Erinne per eccellenza, colei che personifica ben più che un personale rimorso, ma il rimorso di un intero secolo, una coscienza storica chiamata – prima o poi – a slatentizzarsi come un virus che, però, guarisce.

È la verità. La verità di se stessi, la verità di chi “siamo stati”, mettendoci dentro migliaia di vite oltre la nostra; la verità di chi “non è stato più”, mentre noi siamo ancora. È la peggiore delle nemiche, perché quando arriva sembra che lo faccia per annientarti, e invece viene a salvarti. È l’ultima delle tue complici, quella di cui mai avresti creduto che fosse capace di darti la vita mentre sembrava togliertela.

Keren David è capacissima di dire tutto ciò, e molto di più, senza appesantire il racconto, senza trasformarlo in una lamentazione, lasciando che su di esso continui a soffiare la fresca brezza dell’adolescenza. Ma il testo, per chi sceglie di leggere da adulto una storia da adulti raccontata però dai sentimenti di due ragazze, e di due amici che staranno loro accanto, insegnerà che si possono dire cose importanti su svariati registri narrativi, e chiunque sarà pronto a farsi stupire da questa freschezza così… beh, sì… importante. Perché, in fin dei conti, cosa c’è di leggero o di poco importante nei sentimenti di chi, attraversato lo Jabbok della propria infanzia, si ritrova a dover fare i conti con la verità? È una questione più che importante, è decisiva. E nelle cose decisive bisogna partire da una prima insostituibile consapevolezza: finché non sono perseguitato, non sono mai veramente io.

L’io costa, costa raggiungerlo, costa difenderlo. E sono cose che si imparano presto, anche a scuola, dove un libro del genere potrebbe fare certamente del bene. Dove infatti, e forse soprattutto, si può imparare che, dietro un io da difendere, ce ne sono tantissimi altri da dover conservare.

All’inizio di questo romanzo c’è una premessa: Tutti i personaggi di questo libro sono di fantasia, tranne uno. Ero convinto che si trattasse proprio della verità. Poi scopro che invece si tratta di Mala Tribich. Poi capisco che è la stessa cosa.

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