“Tua figlia Anita”, il primo capitolo del romanzo di Paolo Massari

«È troppa tanta bellezza per una morta, per la morte». Un uomo, la voce narrante, ha perso la moglie e si rivolge al padre di lei, per dargli questa notizia. È l’avvio di un libro importante, un debutto che non lascia indifferenti, la storia di una vita, attraverso una voce nuova e autentica. Per gentile concessione dell’autore e della casa editrice vi proponiamo il primo capitolo di “Tua figlia Anita” (176 pagine, 17 euro), romanzo di Paolo Massari in libreria da oggi, pubblicato da Nutrimenti

 

È morta la tua ultima figlia, l’unica che meritava di vivere. Ti ha cercato tanto. Ha passato pomeriggi interi a sgolarsi. Dalle case vicine qualcuno ha gridato: “E basta!”.

La verità è che io l’ho abituata troppo bene, al primo “Giacomo!” ero subito da lei. La sua voce faceva pensare a chissà che ma erano cose da niente, quasi sempre: accostare le persiane, accendere la luce. Qualche volta, un bicchiere d’acqua: “Ho proprio tanta sete!”. Non so come mai ci mettesse tanta urgenza, non certo per paura che non la sentissi. Forse era solo il modo più veloce per confermarci di essere vivi, al di là della parete.

Portano traccia dei suoi richiami improvvisi anche tanti compiti dei miei studenti, spesso mi faceva scappare la penna mentre ero alle prese con l’ennesima frase oscura o copiata in un tema di Giovanni Bacci, o di Giulia Mattei. Penso allo stupore dei ragazzi davanti a quei segnacci, alle linee rosse tra una parola e l’altra, alle ‘i’ lunghe oltre misura di frasi come: “Vedi tema della compagna di banco Zonchiiiii”. Forse i più cattivi hanno sperato nei primi indizi dell’infermità precoce che mi avrebbe finalmente tolto di mezzo. E invece è successo a mia moglie. È lei che si è tolta di mezzo. C’è anche chi ha protestato, per quei segnacci, come Piera Cartoni, “portavoce della classe sdegnata”, ci ha tenuto a ribadirlo più volte, “davanti a un professore che pretende precisione ed è il primo a non dare il buon esempio”.

“Papà, papà, papà!”, sento ancora tua figlia che ti chiama come se potessi davvero spuntare dall’altra stanza. “Sai dov’è mio padre? Puoi andare a prenderlo?”. Cercavo di rassicurarla. “Prima o poi arriva, stai tranquilla”. “È tardi”, mi ha detto. “Non c’è tempo”.

Le ho promesso che ti avrei trovato. Perciò sono qui. Non serve a molto ma lo faccio per me. Per stare, come si dice, più a posto con la coscienza. Forse però non è neanche questo. A essere onesti, mi sento come quando lei mi faceva saltare dalla sedia, con un impegno da portare a termine. Solo che oggi non si tratta di programmare la registrazione di un film d’amore per stasera alle sette. Oggi io sono qui per conto di tua figlia, che è morta, e a cui non ho fatto la domanda più importante. Lo chiedo a te. Hai idea di cosa dovrei dirti? Avete lasciato qualche discorso a metà, per caso? Anita mi ha mandato da te senza spiegarmi. Tu però ascoltami bene lo stesso, se puoi. Forse mi verrà in mente parlando. Farò attenzione a non dimenticare niente ma certe cose le terrò per me, noi siamo stati sempre molto discreti.

Pensavo, mi avresti riconosciuto? È passato tanto tempo, sono rimasto quasi senza capelli. Era prevedibile, non ne ho mai avuti tanti. A te gli uomini calvi non piacciono, lo so, ma è facile parlare con quella chioma folta. Non sopporti neanche quelli con i baffi, su questo ti do ragione. E comunque i baffi si scelgono, la calvizie no.

Parlare di Anita potrebbe essere più facile adesso. L’assenza permette di barare, di fare aggiustamenti. Anzi, forse dare una mano di bianco è il dovere di chi resta. Io però non lo so se ci riesco, magari poi esagero. Farei peggio, se ti dicessi che era meno sbadata, o che aveva imparato a moderarsi con la liquirizia. Rischio di depistarti, di darti un’idea sbagliata di lei. Se invece ti dico che tua figlia non dimostrava i suoi anni puoi credermi. Una signora anche gentile ma un po’ troppo curiosa con cui abbiamo scambiato qualche parola in treno, l’anno scorso, gliene ha dati dieci di meno. “Avrei detto al massimo trentotto, o trentanove! Suo marito invece sembra proprio uno della sua età”. Secondo me non c’entrano le creme per il viso, che adorava, io penso che l’abbia aiutata lo sguardo. Chi non sa prendersi sul serio resta giovane più a lungo.

La giovinezza, quella vera, è finita da un pezzo. Ieri ho pensato al biglietto che mi ha lasciato sulla fronte una mattina, credo trent’anni fa. Ce l’ho ancora e prima o poi magari lo appenderò al muro. È un foglio a righe strappato da una vecchia agenda. Su quella pagina di un giorno a caso, se non sbaglio un 30 luglio, Anita ha scritto solo: “Sono uscita e non tornerò, non aspettarmi più”.
Io sto lì ancora un po’ eccitato ma tremante, come mi capita al risveglio, e non so cosa pensare. Non riesco a capire perché mi abbia lasciato. Mi alzo per andare in bagno e la trovo lì. “Che fai, non bussi?”. Ho la scena stampata in testa. Tua figlia seduta sul water, con i capelli legati, che sorride e forse è un po’ pentita, perché sa di avermi fatto spaventare. “Mica posso chiamarti cento volte ogni mattina!”. Il messaggio di addio era solo una scusa, un po’ perfida, per farmi scattare in piedi. Anita fischietta a modo suo, senza fiato ma con allegria, e intanto gioca a sprecare la carta igienica. Il rotolo che gira come una ruota la diverte. Ne stacca sempre un metro alla volta, non ha mai perso questo vizio. Mi ha detto con una strana dolcezza: “Ti cedo il posto”, e per un attimo ci siamo trovati uno di fronte all’altra, riflessi nello specchio, accanto al cesso. Peccato che nessuno ci abbia scattato una foto proprio in quel momento preciso, quando mi ha dato una carezza, più materna che sensuale. “Non potrei mai lasciarti con un pezzo di carta!”. Sapere ci saremmo lasciati meglio di così era consolante. Non pensavo che sarebbe finita con la sua morte. La morte è il divorzio più definitivo, senza ritorni possibili. Sono curioso, e ho paura, del silenzio che troverò stasera.

Quando penso a quella piccola casa sui tetti, ricavata da un ex lavatoio, mi immagino sempre che ci vivano dei ventenni come eravamo noi. Un posto così può ospitare solo la giovinezza, le promesse imprecise del tempo a venire. Il soffitto era bassissimo, non sai quante volte ho battuto la testa. Se sono distratto mi capita ancora di piegarmi in avanti per parare il colpo. È un cortocircuito che mi piace, mi illude che da qualche parte, dentro di me, quel ventenne sia ancora vivo. D’estate diventava incandescente, la casa di via Antonio Cesari 24, e con la pioggia ti sembrava di vivere sotto l’ombrello, sentivi picchiettarti sulla fronte le gocce d’acqua. In due ci camminavamo a stento anche perché i mobili occupavano quasi tutto lo spazio. La proprietaria, la signora Di Tata, li aveva recuperati dalla casa di qualche vecchio parente, alcuni sportelli erano chiusi a chiave. Io e Anita abbiamo passato serate intere a fare congetture, a immaginare cosa nascondessero. L’ascensore rotto ci ha sempre salvato dai vostri tentativi, pochi, di farci visita. E meno male, immagino che avresti detto qualcosa come “Anita qui non ci rimane”. Non sei stato contento nemmeno della casa che abbiamo comprato qualche anno dopo, lontana cinque minuti a piedi da via Antonio Cesari. Non ci siamo più spostati da lì, forse per te questa è un po’ una delusione. La chiamavi “topaia”, lo so, ce lo ha raccontato tua moglie. “Non dovete offendervi, è solo per spronarvi verso qualcosa di meglio”. È una casa piccola, ha solo tre finestre. Prima del vostro arrivo facevamo brillare i vetri lavandoli con i fogli di giornale. “Almeno così entra più luce”.

Ieri sono passati per le condoglianze Carla e Antonio, che tutti chiamano ‘Tonio’. Abitano al piano di sopra. Carla è anche il secondo nome di Anita, non ci pensavo. Erano a disagio e forse avrei dovuto fare uno sforzo ma sono un po’ stanco. Combattiamo da mesi con la perdita in cucina e ancora non si decidono a ripararla, si sono messi in testa che deve pensarci l’amministratore. Anita era furibonda, ha passato ore a fare telefonate. “In fondo è un tubo, che c’è di così complicato?”. Prima di andare via Carla mi ha sussurrato a mezza bocca: “Scusaci, risolveremo presto”. A parte la macchia sul soffitto, che continua ad allargarsi, casa nostra è rimasta come te la ricordi. Forse diresti che è la stessa topaia. Ora però è sul punto di esplodere.

Ogni tanto Anita cerca di fare spazio. Comincia sempre con le migliori intenzioni, fischiettando a modo suo come al solito, poi inizia a parlare da sola, a borbottare. “A che serve questa sveglia? È rotta, le manca una lancetta!”. A me sembra solo che sposti le cose da una parte all’altra e invece mi sbaglio, perché riempie sacchi neri enormi che diventano molto pesanti. Arrivo al bidone della spazzatura sudato e col timore che presa dalla furia abbia buttato qualcosa a cui tengo. Come la prima radiolina che ho comprato da ragazzo, o il maglione blu, ormai infeltrito, che avevo trovato in un mercatino a Firenze, in gita con la scuola. Non c’è verso di fermarla quando è ‘il momento della buttata’, come lo chiama lei. Mi fa sempre pensare a una che si è lanciata di sotto, quel suo modo di dire ‘buttata’. Il tempo dei biglietti scherzosi, dei sorrisi in bagno, a volte sembra proprio archiviato. Anita parla spesso della polvere, delle sue allergie che peggiorano. “Così non si può andare avanti!”. Detesta soprattutto l’odore dolciastro che d’inverno, con il tepore delle stanze, ti si ficca nel naso.
Il 16 ottobre ci siamo decisi a cambiare casa. Mi ricordo il giorno perché abbiamo preso un impegno scritto:

Oggi, 16 ottobre, dopo aver constatato che la nostra abitazione sita all’interno 5 di via Giovanni Battista Falda 3, scala unica, risulta ormai sprovvista di ulteriori spazi e inadatta al nostro vivere comune, i sottoscritti Anita Bellucci e Giacomo Magri si impegnano, entro un anno dalla firma del presente documento, a trasferire la loro residenza presso un altro immobile. Il nuovo alloggio deve disporre almeno di una stanza in più, di un piccolo balcone, e trovarsi al piano intermedio di una palazzina accogliente. Il tutto, chiaramente, a un prezzo ragionevole, che ci consenta di non indebitarci a vita.
Nel pieno delle nostre facoltà (per quanto relative)

Anita Bellucci
Giacomo Magri

L’appartamento di largo Vittetti, sempre in zona, sembra interessante. Possiamo vederlo subito, i proprietari sono gentili. Ho un po’ paura di fare tardi a scuola ma evito di dirlo ad Anita. Per non dimenticare niente ha preso appunti su un piccolo blocco. Si è segnata tutto: le domande da fare su mutui e ipoteche, i costi del condominio, l’eventuale cantina. Ci hanno aperto un uomo e una donna del tutto simili a noi. Anzi, forse forse è una coppia un po’ più consumata, non so dirti perché ma sento questo.
La casa è appestata dal sonno recente, i signori Valgimigli non hanno aperto le finestre per far passare un po’ d’aria e secondo me lui, sotto al maglione, porta ancora il pigiama. Mi chiedo perché vogliano trasferirsi: lo spazio non manca, la luce nemmeno, e c’è anche un bel balcone.
Siamo lì da due minuti, in quel tanfo di altri, e immaginiamo già le stanze. Riusciamo a cancellare dalla vista i divani di velluto, i tappeti, le vetrine piene di pipe, tartarughe di cristallo, delfini in argento. Io e Anita pensiamo al soggiorno sulla destra, alla cucina con le mattonelle chiare. Dall’altro lato un piccolo studio, molto luminoso, ideale per lavorare di pomeriggio. Sembrano increduli persino i Valgimigli, coppia impronunciabile a cui ho sempre storpiato il nome, per errore e non per scherno, in Valmiglio o Valmeglio. Lei stessa, pallida e con l’aria già stanca, mi è sembrata perplessa, stupita di quanto ci avesse colpito casa sua: “Davvero vi piace così tanto?”. Cercavo un segno, un consiglio, nell’immagine di Padre Pio che troneggiava all’ingresso, un po’ storta, e fissata al muro con tre puntine da disegno rosa.

L’entusiasmo è sparito in fretta, appena fuori ci ha investito la prudenza. “Se è tutto così perfetto, perché la vendono?”. “È solo la prima, forse conviene aspettare”. Abbiamo visto decine di case, dopo quella dei Valgimigli, e ogni volta è venuto fuori un problema: la strada rumorosa, le troppe scale, i lavori da fare, il prezzo, il terrore di un cattivo vicinato. Quando passo lì intorno penso sempre a chi ha avuto lo slancio che a noi è mancato. Immagino la vita in quelle stanze dopo i Valgimigli. Ho visto alle finestre delle tende molto azzurre, da stabilimento balneare. Che tristezza!
Eravamo pieni di opuscoli con annunci immobiliari. TrovaCasa, Casa per te. Anita usava la lente d’ingrandimento, si leggono a stento quelle descrizioni mirabolanti e tutte uguali: “Luminoso, gode di un affaccio tranquillo e silenzioso”. Più di una volta l’ho trovata a dormire sul divano con uno di quegli opuscoli tra le mani, funzionavano anche come sonniferi. “Possibile che tra tutte queste case non ce ne sia una che vada bene per noi?”. Cominciava ad abbattersi, e io a sentirmi in colpa ripensando all’occasione persa con i Valgimigli.
Sembrava ogni giorno più stanca, dolorante, come se fosse presa da una spossatezza invincibile. L’11 gennaio, un giorno freddo ma con un cielo ottusamente azzurro, di falsa primavera, abbiamo capito. Da quel lunedì so che non è ovvio esistere. Nessuno avrebbe pensato alla morte, ai suoi primi movimenti. Sono bastati esami semplici. Avevo promesso di dare un’occhiata al nuovo numero di CasaTua, nell’attesa, ma poi ho ceduto al richiamo delle vecchie riviste appoggiate sul tavolino nell’angolo. Mi sono appassionato alla storia torbida e ai delitti di Miss Sicilia, “rapinatrice, latitante e innocente”. Non sono riuscito a farmi un’idea, non saprei se la miss è innocente o no. Anita è dentro da un bel po’, comincia a essere tardi, lo studio si è svuotato in pochi minuti al suono di “arrivederci” e “a domani”. È un po’ strano, che mia moglie non esca. L’unica porta che non si apre è quella. Mi dico che forse il medico è stato trattenuto al telefono, e lei è rimasta lì ad aspettare, senza tradire l’impazienza che poi sfogherà a casa. Oltre a me c’è solo una signora piuttosto anziana. È arrivata tardi alla visita perché ha avuto un incidente con la sua Innocenti Small. Roba di poco conto, mi sembra, ma non riesce a calmarsi. “Non mi era mai capitato, la mia povera Small”. È sul punto di piangere, le manca poco per ricevere la medaglia degli Amici della Strada, e ora teme di averla persa. Non ne sapevo niente, è un premio che danno a chi non ha avuto incidenti per quaranta o cinquant’anni di fila. Tutta colpa del tizio con il furgoncino che l’ha tamponata al semaforo. “Sono tutti distratti, tutti distratti”. Un’infermiera è venuta a chiamarmi, finalmente, ma la quasi amica della strada continua a parlare, non lascia il mio braccio. “E non immagina che rumore. Pensavo che mi avesse distrutto la macchina!”. “Scusi, Ada, adesso il signor Magri deve andare, c’è il dottore che lo aspetta”. È chiaro che qualcosa non va, forse sarebbe meglio restare con Ada, l’amica della strada, che qui è di casa.

Tua figlia, quando mi vede, non so come sorride. Non ricordo bene le parole del medico, ho cercato di cancellarle già mentre le diceva. Ricordo però il suo sguardo, l’aria cupa da tirapiedi. Non c’è più tempo per pensare alla casa nuova, è saltato tutto. Usciti da lì siamo andati all’Upim a comprare una camicia da notte e la vestaglia per l’ospedale, un corredo sinistro. Manca- va poco alla chiusura, c’eravamo solo io e Anita, anche se in fretta ha scelto tutto con cura. La vedo che confronta le diverse tonalità di azzurro, che mi chiede, come sempre, di leggere la composizione: “Deve essere cento per cento cotone”. Mi stupisce, che davvero si metta a pensare alle camicie da notte. “L’ospedale è come una luna di miele, ci si va sistemate”.

Proprio in ospedale, qualche settimana fa, mi ha detto: “La luna di miele è finita, è durata anche troppo”. Io ero concentrato sul suo petto di pollo. Cercavo di fare pezzetti simmetrici, tagliando prima in un senso e poi nell’altro. “Voglio tornare a casa, Giacomo, lasciamo il posto qui a qualcun altro”. Mi vergogno se ci penso ma devo dirtelo, ho sentito un rigurgito acido in gola all’idea. Fino a quel momento non avevo avuto il coraggio di confessarlo neanche a me stesso: ero certo che non sarebbe mai uscita da quella stanza di ospedale. La 334, al terzo piano come casa nostra. “Intanto mangia, altrimenti si fredda”. Anita mi ha preso il polso, lasciando la forchetta sospesa in aria. La faccia cupa si è aperta in uno sguardo scherzosamente indagatore: “Perché quel muso? C’è già un’altra, a casa mia? Aspetta almeno che diventi fredda!”. La imboccavo e intanto immaginavo la sua agonia. Ero preoccupato per me più che per lei, capisci? La sua morte, ormai certa e in avvicinamento, mi sembrava troppo difficile. Speravo di potermela cavare con qualche notte in ospedale, o di precipitarmi lì appena dopo la chiamata, che prima o poi sarebbe arrivata. E invece niente. “Ho già fatto la richiesta per il letto da malata grave. Quattro o cinque fogli da riempire che ti fanno passare ogni speranza anche minima di potercela fare. Dovrebbe arrivare tra qualche giorno, sempre che la burocrazia riesca a essere più veloce della morte. Faremo un po’ i separati in casa, va sistemato in salotto. Devi chiedere una mano a qualcuno”. Ho chiesto a Michele, mio fratello, non lo sentivo da un po’, sembrava dispiaciuto per Anita ma si è messo a parlare della sua schiena. Per la morte e un’ernia la stessa gravità. “Non preoccuparti, riguardati”. Ho messo giù, sarà stato contento. La burocrazia è stata veloce, ma meno di quello che Anita sperava. È arrivata a casa senza rendersene conto, come in uno stato di sonno profondo.

Mi hanno avvisato della consegna del letto il giorno prima, ho avuto solo un pomeriggio per organizzare il salotto. Te l’ho detto, casa nostra è piena. La credenza non l’ho neanche svuotata, ho provato a spingerla a spallate senza smuoverla di un centimetro, ottenendo solo la risposta tintinnante di piatti e tazzine, come se volessero dirmi: “Noi da qui non ci muoviamo”. Alla fine, non so come, ci sono riuscito. Il pavimento si è rigato, ma non importa. Ho anche quasi distrutto il tavolo da pranzo rotondo che era stato di mia nonna. Prima di precipitarlo per le scale sono rimasto a fissare la placca di ottone sulla porta di casa. Ho letto il nome di Anita e il mio dieci volte. Sulla porta, da oggi, c’è il nome di una morta. C’è una placchetta con il suo nome anche sul coperchio che tra poco chiuderà la bara.

Lanciare il tavolo da un piano all’altro, due settimane fa, è stato quasi divertente. Nessuno ha protestato per il rumore. Giù alle cantine mi sono preso uno spavento. Vedo nella penombra un paio di scarpe, mi fermo. “Non gridi, la prego”. È una voce educata, giovane. Non so perché ma mi ispira fiducia. Accendo la luce. Un ragazzo alto, molto bello. Non credo sia un ladro, se lo è non è capace. Forse sta aspettando la figlia di un vicino.
Penso a quando avevo la sua età e mi nascondevo sotto al letto di Laura, la mia prima fidanzata, per non farmi trovare da suo padre. “Aspetto Nicola”. Spero di aver capito male ma lui ripete più ad alta voce solo “Nicola”.
Allora è vero che l’ex maestro di tennis paga i ‘bei giovani’. Pensavo che fossero voci. Anita dice che ha un debole anche per me. Se passa lei la saluta a stento, quando vede me invece esclama con entusiasmo: “Buongiorno, bel giovane!”. A volte rido, altre mi innervosisco. Dipende dai momenti. Capirò di essere invecchiato quando non mi dirà più così. È vicino ai sessanta, Nicola. Vive qui da quando è nato. Sua madre è una vecchia un po’ svagata. Vuole diventare nonna e ancora non si arrende. “Nicola mi vuole troppo bene, perciò non si sposa!”. Ci vede poco ma ancora prepara i corredini per i nipoti. Forse Nicola infila i soldi per i ‘bei giovani’ nei calzini da neonato cuciti dalla mamma.

Il ragazzo alto è gentile, mi aiuta a sistemare il tavolo. Ha gli occhi pieni di angoscia. Potrebbe essere mio figlio, dovrei fare qualcosa per lui. Dirgli: “Corri, vattene via. Ti do qualche soldo io se non vedi più quel vecchio maiale”. Sarebbe la cosa giusta, lo so, ma vado di corsa. E poi Nicola sarà qui a momenti e non voglio incontrarlo. Chissà che ha pensato, il ragazzo alto, vedendomi spingere il tavolo. “Buona fortuna”, gli ho detto. “Buona fortuna a lei”. Serve a entrambi.

Torno su quasi eccitato. Voglio raccontare tutto ad Anita, dirle che ha ragione su Nicola. In soggiorno però lei non c’è, e non c’è neanche il tavolo. Il divano è contro una parete, con le sedie sopra. Il letto è arrivato l’indomani, la mattina presto. Grande, pieno di fili. Sembra una cosa mandata dal futuro.
Pensando al ritorno di Anita mi sentivo impaziente come se la vita potesse cominciare di nuovo, anziché finire. Non li ha neanche visti ma ho comprato dei fiori per lei. I suoi preferiti, i lillà. Ci sono rimasto un po’ male. All’ospedale, fino a qualche giorno prima, sembrava un po’ meno abbandonata. Mi ha augurato “Buona fortuna” anche un infermiere con la faccia buona che è stato qualche ora con noi per vedere come andava. Ha guardato Anita con l’affetto di uno di famiglia. “Ora è di nuovo a casa”, ha sussurrato.
Mentre saliva su, dei vicini hanno fatto il segno della croce anche se era ancora viva. Nessuno si è perso la scena. Nicola e sua madre, sulla porta, si sono tenuti la mano.
Due settimane fa è salita su una lettiga già quasi morta, oggi scenderà dentro la bara, morta e basta. Le mie paure da uomo piccolo e mediocre si sono rivelate inutili. Ho potuto fare ben poco, per tua figlia. Soprattutto, l’ho guardata dormire.

Apre gli occhi solo ogni tanto e in quei momenti ritorna misteriosamente alla vita. A volte ho l’impressione che mi guardi, spero che sia felice di vedermi. Non so se mi riconosce, se riconosce casa sua. Non è chiaro neanche ai medici. Uno mi ha detto: “Nessuno può avere la certezza di cosa sente sua moglie”. Preferisco pensare che non senta, che la coscienza si sia spenta prima del corpo. Prima di avere chiara la fine. Ormai le dà fastidio ogni rumore, ogni contatto. È più tranquilla con il silenzio intorno. Ho smesso di parlarle e anche di sussurrare e non le ho più dato carezze né baci perché appena sfioravo la sua pelle fredda, pronta a morire, lei stringeva gli occhi forte, come se avesse paura. Come prima di sbattere a grande velocità contro un muro.

Il medico che è passato ieri pomeriggio mi ha detto: “Si tenga pronto”. Gelido, come se ce l’avesse con me. Aveva l’aria da stronzo ma volevo chiedergli di restare un altro po’, di non lasciarci da soli.
Nell’ultimo, lungo giorno di tua figlia mi sono sentito sospeso dal mondo anche io. Sarà una bella primavera, le giornate si sono allungate. Anita non se ne è accorta. Non sa e non saprà niente delle notizie di oggi, delle cronache dal mondo nel suo ultimo giorno sulla Terra: la rapina al portavalori in autostrada, con tanto di sparatoria, l’inchiesta su un politico importante, che le era antipatico, e che chiamava ‘il saccente’. Non saprà che proprio oggi è stata annunciata una nuova cura per il tumore, credo in America. Non saprà che è previsto un bel sole, per domani, e che invece la settimana prossima, la prima in cui lei non sarà al mondo, ci sarà una perturbazione atlantica, con temperature in picchiata. Chissà cosa ricorderò io, di questi giorni. Poco fa, mangiando un biscotto un po’ duro, mi è saltata di nuovo la piombatura del famoso molare che mi fa dannare da anni. Anita non saprà neanche questo, né che la caldaia sta andando di nuovo in blocco. I miei denti continueranno a rompersi, continueranno a rompersi le cose di casa nostra, salterà la corrente quando ci sono due elettrodomestici accesi. Tutto senza di lei. Non credevo che sarebbe morta prima di me, e tanto presto. Ne parlavamo con la leggerezza sinistra di quando si è giovani e quel momento sembra ancora lontano. Speravamo e temevamo allo stesso tempo di finire come i coniugi centenari che si spengono a poche ore di distanza l’uno dall’altro e commuovono tutti per il loro amore. Tra le tante, era la soluzione più accettabile.

Stanotte, poco dopo le quattro, mi ha svegliato. Respirava forte, come se stesse dormendo profondamente. Ero crollato, mi sono ritrovato con la testa sulle sue gambe scheletriche. Dopo quel respiro forte c’è stato come un fischio, un soffio di aria veloce. Le ho sentito il polso e non c’era più.

È strano vederla con il vestito verde smeraldo. L’avrà messo due volte, tre al massimo, e ora se lo terrà addosso per sempre. Le dona, anche dentro la bara, ma qualcosa mi disturba in questa sua eleganza. Forse è eccessiva. È troppa tanta bellezza per una morta, per la morte. Sembra quasi una presa in giro. Cerco di ricordarmi cosa indossava l’ultima volta che l’ho vista vestita normalmente, prima di queste lunghe settimane a letto, in camicia da notte. Penso a cosa possiamo esserci detti a cena, in cucina, quando ancora non immaginavamo niente. Stamattina mi ha dato fastidio il sole. La notte è più adatta, se in casa c’è un morto.

Mi affaccio per chiudere le persiane e sento una spinta lungo la schiena, le gambe molli. Stacco le mani dal davanzale solo quando non sono più sulle punte, quando i piedi sono di nuovo saldi sul pavimento. Forse riuscirei davvero a buttarmi di sotto. O mi piace pensarlo, visto che adesso non posso, perché prima devo seppellire tua figlia. Scusa se mi sono presentato da te così, senza preavviso, con una notizia del genere. L’ho fatto solo perché, quando ancora parlava, non faceva che chiamarti. Te l’ho detto, sento di aver preso un impegno con lei.
Mi dispiace, ma dovevi sapere.

 

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