La città-sogno di Pietroburgo, il teatro di burattini di Andrej Belyj

“Pietroburgo” di Andrej Belyj – morto l’8 gennaio di novanta anni fa – è un’opera unica e inclassificabile, pur in seno al simbolismo russo, un romanzo dallo stile surreale e frammentario. Curato e tradotto da un altro fuoriclasse, Angelo Maria Ripellino, ha come canovaccio il parricidio secondo una potente valenza simbolica, come rottura della tradizione. I personaggi esondano dalle pagine e piroettano…

Parafrasando il titolo di una raccolta di racconti di Raymond Carver, quanto di più distante dal punto di vista letterario dallo scrittore e dall’opera di cui di seguito, potremmo domandarci: di cosa parliamo quando parliamo di un romanzo? Quale sforzo e utilità può avere farlo in quei casi in cui questo si presenti come un oggetto che ci sfida con l‘ostica cifra stilistica della sua sintassi, con lo sfaldamento semantico, la fuggevolezza dei contenuti e l’incerta tracciabilità dei personaggi che lo abitano, tanto da farci domandare se questi siano esistiti veramente e cosa rappresentino nell’economia di un oggetto già di per sé astratto come può essere un romanzo, quindi un’opera di pura immaginazione? Eppure Pietroburgo è esistito, così come il suo autore Andrej Belyj, pseudonimo di Boris Nikolaevic Bugaev, nato a Mosca nel 1880 e ivi scomparso l’8 gennaio di 90 anni fa, in quel 1934 di piena era sovietica, epoca nella quale i luogotenenti del regime osserveranno con sospetto lui come altri intellettuali e artisti che pedineranno con attenzione, quando non spediranno in qualche gelido campo siberiano o faranno addirittura scomparire in altri modi come accaduto  a coloro che non fossero stati allineati al realismo di Stato, così come sono esistiti i simbolisti russi di inizio novecento fra i quali il suddetto Andrej Belyj (Andrea Il Bianco) che ne è stato uno degli esponenti di spicco, tanto vale parlarne un po’.

Un poema d’ombre

Il romanzo deve essere considerato indubbiamente l’opera maggiore di colui che sarà anche poeta, critico letterario e filosofo, che spesso è stato definito troppo scolasticamente il Joyce russo, come fa giustamente notare Angelo Maria Ripellino, traduttore della storica edizione del romanzo uscito da noi nel 1961 per Einaudi e da lì a poco confluito nel catalogo Adelphi. Più vicina a Andrej Belyj deve invece essere considerata l’estetica espressionista, pur rivista in una chiave personalissima, con gli stregoneschi effetti come si mostrano nel suo romanzo capolavoro, carico di scene oscure e a tratti sanguinolente, in un’atmosfera notturna, uno svolazzare di mantelli, tremolio di candele e arcani riflessi negli specchi. L’irrinunciabile corredo di Pietroburgo (Adelphi 2014, 384 pagine, 22 euro) è il saggio introduttivo dall’esemplificativo titolo “un poema d’ombre” di Angelo Maria Ripellino che ne è anche il traduttore, l’insigne slavista e critico nonché autore di un altro capolavoro, il saggio-romanzo Praga Magica. La sua corposa introduzione, che meriterebbe una nota critica a parte è un capolavoro nel capolavoro, tanto vale citarne l’incipit per intero, anche per capire il tenore di quello che da lì a poco leggeremo:

Prodigio architettonico issato su vacillanti paludi, Pietroburgo si profila dalle pagine degli scrittori russi come assurda città di incantesimi. Dietro fastose apparenze, palazzi austeri, merletti di cancellate, la “Palmira del Nord”, scaturita come un miraggio dal fango degli acquitrini per il caparbio volere d’un despota, nasconde misere spoglie sofferenti, un querulo modo di pena.

La città che si affaccia sul Mar Baltico, già cantata e celebrata dai grandi autori russi, fra i quali il riconosciuto capostipite delle patrie lettere Pushkin, finestra e vetrina della Russia sull’occidente è l’indiscussa protagonista del romanzo di Belyj. Città definita anche la “Palmira del nord”, facendo riferimento all’antica e mitica città persiana per la magniloquenza delle sue opere architettoniche alle quali hanno contribuito in gran parte architetti italiani o “finestra sull’ Europa”, nata per volontà di Pietro I detto il Grande, lo Zar riformatore e fondatore nel 1703 della città sulla Neva, con l’obiettivo di scardinare le vecchie tradizioni e aprire al mondo la grande Russia, dando vita a quelle due opposte concezioni della nazione che troveranno espressione nella contrapposizione dei secoli successivi tra occidentalisti e slavofili che si concretizzerà riguardo alla figura anch’essa mitizzata del suo fondatore in opposte valutazioni che vedranno in lui, a seconda da che parte esse provengano, un “Costruttore taumaturgo” oppure un “Anticristo”. Pietroburgo fu inizialmente pensato dal suo autore come la seconda parte di una trilogia dal titolo Oriente e Occidente, il cui secondo volume avrebbe dovuto intitolarsi I viandanti, il quale avrebbe fatto seguito a Il colombo d’argento dell’anno precedente. Il titolo definitivo gli verrà sollecitato come più pregnante al romanzo, iniziato da Andrej Belyj nel 1911, il quale subirà ben cinque varianti che lo renderanno irriconoscibile rispetto alla stesura originale e alle intenzioni iniziali che prevedevano per il protagonista principale solo una piccola parte. Curiosa coincidenza: vicinanze o meno che si possano riscontrare tra la Pietroburgo di Andrej Belyj e la Dublino di Joyce è che la variante definitiva di Pietroburgo, quella adottata da Ripellino per la sua traduzione e che verrà tramandata dalle ristampe sovietiche del 1928 e del 1935, uscirà nel fatidico 1922 che è anche l’anno di pubblicazione dell’Ulisse dello scrittore irlandese.

Contorsioni stilistiche e vissuto familiare

Le contorsioni stilistiche non impediscono di tracciare nel romanzo di Belyj risonanze autobiografiche. Figlio di un matematico professore all’università di Mosca, descritto nel romanzo sotto le sembianze del grigio burocrate zarista Apollon Apollonovič Ableuchov, deriso nella finzione romanzesca per le sue fattezze, i suoi vezzi e per le emorroidi, e la madre, una delle donne più belle e frivole di Mosca  che trova la sua rappresentazione in una delle evanescenti figure femminili del romanzo, per non tacere sulle infatuazioni del figlio di Ableuchov, Nikolaj, per alcune donne nelle quali si trova il calco di alcune delle passioni amorose del giovane Belyj, con effetti stranianti dati dalla natura eccentrica del protagonista e i suoi comportamenti da trickster nei quali si ritrovano esperienze dell’autore, il Belyj che negli anni Trenta sarà ballerino di fox-trot in equivoche bettole di Berlino, Andrea “Il Bianco” seguace dell’antroposofia di Rudolf Steiner, il poeta simbolista, filosofo ispirato dal pensiero di Solov’ev e critico letterario che morirà l’8 gennaio di novanta anni fa per i postumi di un insolazione rimediata in Crimea, i cui echi biografici si ritroveranno nel Nikolaj di Pietroburgo, “il figlio ribaldo”, così lo definisce il padre, con vezzi e bizzarrie quali quella di indossare un domino rosso e una maschera, un gioco di travestimenti tutti da gustare e in linea con la sgangherata e complessa poetica dell’opera. Le stesse liti familiari che farciscono il volume sono anch’esse un prestito dal vissuto familiare del giovane Andrej Belyj trasfigurate in un modo parossistico e rapsodico stilisticamente tutto da scoprire.

In rivolta contro la società dei padri

Il motivo conduttore e la parte essoterica del romanzo, perché ve ne è anche una esoterica e in quanto tale destinata a rimanere nascosta, in soldoni, cosa l’autore abbia voluto dirci (sempre che un romanziere voglia dirci qualcosa) e che trova espressione nello stile ellittico, allusivo, surreale e frammentario del romanzo, tale motivo appunto è quello dello scontro generazionale fra padri e figli. Il canovaccio è quello del parricidio che nella letteratura russa vanta illustri predecessori quali il Dostoevskij de I Fratelli Karamazov. Tema questo dalla potente valenza simbolica, come rottura della tradizione, della competizione e affrancamento dalla società dei padri e dal loro giogo, affrontato a più riprese da grandi studiosi fra i quali come non ricordare Sigmund Freud proprio sul Dostoevskij dei Karamazov. L’agente della rivolta verso la società dei padri è Nikolaj, il figlio di Apollon, un giovane imbevuto di idealismo kantiano al quale viene consegnata una bomba che dovrebbe far esplodere in aria il grigio burocrate del regime, nonché padre. La bomba che dovrebbe rappresentare la fine del vecchio mondo e l’inizio di quello nuovo si collega nello spirito del romanzo a un marchingegno che sembra messo lì apposta per scatenare effetti grotteschi e tragicomici, basti pensare che l’ordigno che dovrebbe far saltar in aria il burocrate zarista, simbolo stesso di tutta una tradizione da abbattere è contenuto in una scatola di sardine. Allo stesso tempo ci racconta come solo la razionalità può far sopravvivere la civiltà occidentale, che altrimenti sarà destinata a perire sotto i colpi dell’irrazionalismo che viene secondo una vulgata del tempo là  dove nasce il sole, l’orrore e la paranoia per l’orda gialla e la vituperata invasione mongolica e cinese che si reitera lungo il romanzo ne è la testimonianza. La scrittura di Andrej Belyj, dissociata, caleidoscopica e arabescata non prescinde infatti da un’attenzione cavillosa e raziocinante fino allo spasimo, con un’attenzione maniacale ai dettagli e alla scomposizione degli oggetti e degli eventi che pure sotto la lente deforme di uno sguardo accelerato e frammentato assumono forme e pose stranianti.

Quei dinamitardi dei simbolisti

Un romanzo quello di Andrej Belyj che in ogni caso sarebbe piaciuto all’Ivan Turgenev di Padri e Figli, il romanzo visto dall’ottica di quei nichilisti di qualche decennio prima ma con lo stesso idealismo e torbidi sogni rivoluzionari, secondo gli odierni canoni ingenuo e fallimentare. Nel caso di Pietroburgo lo sfondo sono le convulse giornate del 1905, dopo la sconfitta zarista nella guerra russo-giapponese, gli scioperi, i comizi e il tentato rovesciamento del regime. Un libro o un movimento letterario non farà certo la rivoluzione, ma i simbolisti, cresciuti nel fertile e vibratile clima culturale e storico–politico di quegli anni, con la parabola artistica della loro poesia, della loro prosa e speculazione sono stati i veri ribelli, i dinamitardi, i “ribaldi” che hanno testimoniato meglio di altri l’anelito alla libertà e la necessità della caduta del vecchio mondo con l’auspicata nascita di quello nuovo, anche se poi, come in molti altri casi, sappiamo essere andata diversamente.

Uno stile brulicante, una scrittura-azione

Ma ciò che più conta è il materiale letterario che fa di Pietroburgo un’opera unica e inclassificabile a dispetto della sua piena appartenenza alla congerie del simbolismo russo del primo Novecento. Un caleidoscopio multisensoriale in cui anche gli odori, i colori, i rumori prendono vita e diventano veri e propri personaggi. Uno stile brulicante e una scrittura che si sviluppa su diversi piani dando vita a un complesso meccanismo verbale che trabocca di impulsi caotici e varie forme narrative alternate, dal monologo interiore al saggio filosofico fino al puro onirismo della scrittura automatica. Una scrittura-azione quella di Belyj che costruisce periodi che trasudano capricci e ghirigori caotici sotto l’impulso degli agenti della scrittura che assumono le sembianze di manichini, esili figure e fantasmi di varia foggia che prendono le forme dei rimescolii cerebrali dell’autore tramite la medianica voce dei personaggi, sia quelli principali che quella pletora di secondari  che possono assumere le bizzarre forme di imperscrutabili figure esili e nere, di palline che si gonfiano come Pepp Peppovic Pepp, espressione degli sdoppiamenti della coscienza che pervadono i fantasmi che si agitano nel romanzo, come lo sono i personaggi-fonemi, impasti acustici, allitterazioni che prendono forme astruse e sfuggenti in un continuo gioco trasformistico e di specchi. Tali giravolte semantiche e presenze-assenze che, come effervescenze fluttuanti, esondano dalle pagine piroettano e prendono la forma di fantocci quali il terrorista Dudkin, il subdolo doppiogiochista Lippacenko o la Lichutina, la svenevole e frivola bambola di porcellana già consorte di un molle burocrate che Belyj nelle sue ironiche descrizioni si diverte a sbeffeggiare. L’utilizzo incessante del punto e virgola che in Belyj assume la stessa valenza dei tre puntini sospensivi di Celine segna il tratto delle dissociazioni e degli scatti semantici dei vari periodi che sembrano affiorare da un geyser ribollente energia, una strumentazione verbale arricchita dal continuo irrompere di suoni provenienti da dispositivi acustici che macchiano la scrittura e segnano la musicalizzazione in chiave atonale della prosa tipica dell’intero movimento simbolista. Come in una sconnessa seduta spiritica nel labirinto umido e nebbioso e nell’astrattezza brumosa del romanzo che rispecchia le tonalità cromatiche degli evanescenti fumi di Pietroburgo si agitano in esso “spore fosforescenti germogliate da inganni e cavilli, lemuri da lanterna magica” (dal saggio di Ripellino”), e spie, segugi, cospiratori, persecutori, larve umane, automi, carrozze che volano nella nebbia, ombre, esseri filiformi che si reggono su esili gambe e appaiono sulla scena per poi scomparire nella luce irreale della città come ectoplasmi, palline che si gonfiano e sfarfallano via per poi sgonfiarsi come in un gioco da bambini in un continuo zig zag cerebrale con continui lampi di assurdo.

L’immaginifica forza della letteratura

Un teatro di burattini nel quale su tutti svetta la presenza di Pietroburgo, una città-sogno che sembra destinata a scomparire con la fine delle sue notti bianche e con il dissolversi delle nebbie che sembrano proteggerla, una città che non è più quella di Tolstoj, né quella di Dostoevskij, e nemmeno quella di Gogol, forse il più vicino esteticamente a Andrej Belyj, il quale ne ha parlato nei suoi celebri Racconti con il suo innato senso del grottesco che ha fatto innamorare tanti lettori. La città che emerge dalle brume della scrittura di “Andrea Il bianco” è risultato del cozzare tra due cerchi in un solo punto come rappresentato mirabilmente nella copertina che riporta un dipinto di scuola suprematista: due cerchi concentrici, quello bianco delle prospettive e dei geometrici e opulenti palazzi abitati da ufficiali, burocrati e aristocratici e quello nero, composto dalle isole che circondano la città dove nei reconditi vicoli che la rendono la “fetida Palmira del Nord”, vivono ladri, meretrici, assassini e spie. I due cerchi si incontrano in un punto, che è insieme punto spaziale e punto metafisico, punto sulla cartina geografica (cioè Pietroburgo) e punto nella mente umana, le molteplici voci narranti del romanzo. Una città illusoria che emerge dalle nebbie, il cui frutto ed essenza stessa è proprio il sogno, come il capolavoro di Andrej Belyj, che è una bellissima celebrazione di uno spazio fisico e della fantastica, immaginifica e indistruttibile forza della letteratura.

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