Paul Lynch, il piccolo Giobbe e l’oscurità che ha il sopravvento

In un romanzo che stimola i sensi, “La neve nera” di Paul Lynch, la lotta per la sopravvivenza della famiglia di un emigrato di ritorno in Irlanda. Barnabas Kane fa i conti con una tragedia e con una comunità rancorosa e diffidente. Fra sospetti, sensi di colpa e drammatiche conseguenze, una storia di lirismo mai esasperato, allo stesso tempo onirica e realistica…

Volume centrale della cosiddetta “trilogia irlandese” di Paul Lynch, La neve nera (272 pagine, 17 euro) è uscito dieci anni fa e da noi nel 2018 per 66thand2nd. Gli altri due romanzi della suddetta trilogia, costituita in ogni caso da opere a sé stanti e con sviluppi indipendenti sono Cielo rosso al mattino, l’opera di esordio di Lynch e Grace. Del 2022 è Oltremare, romanzo di diversa ambientazione rispetto ai tre precedenti mentre con il quinto di prossima uscita da noi (marzo 2024) sempre per 66thand2nd dal titolo The Prophet Song (La Canzone del Profeta), Paul Lynch fa ritorno nella natia Irlanda con una distopia che gli è valsa il Booker Prize 2023. La bellissima traduzione di La neve nera è di Riccardo Michelucci, giornalista e scrittore nonché assiduo frequentatore e profondo conoscitore dell’Irlanda non solo dal punto di vista letterario ma anche storico e sociale. La traduzione ci restituisce pagine dove a un limpido lirismo mai esasperato si sovrappone il racconto del quotidiano e lo svolgimento della storia dalle drammatiche coloriture sulla quale s’ innesta l’intero volume, in un romanzo che stimola i sensi, olfattivo, pieno di odori, quello dei pub di campagna con le loro luci in penombra, delle torbiere, delle modeste montagne dalle cime arrotondate della terra d’Irlanda, le sue distese spoglie eppure imponenti simbolo di una natura impassibile alle sorti umane, «Le colline eterne sotto quel vento che soffiava delicatamente sulla terra, invisibile come la mano torturatrice del tempo», in quei territori fatti di «desolazione e umidità», un romanzo fatto di colori e paesaggi, quelli dell’Irlanda nordoccidentale, siamo nel Donegal nel 1945 e gli echi della guerra che ha devastato il mondo arrivano attutiti come la neve che cade sulle sue colline.

Uno straniero a casa

L’inizio del romanzo è dirompente: è la scena di un incendio alla fattoria di Barnabas Kane, un emigrato di ritorno, il quale dopo aver vissuto per anni a New York dove ha lavorato come operaio arrampicandosi e costruendo grattacieli si stabilisce nella sua terra di origine afflitta dalla miseria con la moglie Eskra, nata oltreoceano ma di sangue irlandese e con il figlio Billy. Nell’incendio che riduce la stalla con il bestiame in cenere mettendo la famiglia sul lastrico perde la vita Matthew Peoples, il bracciante di Barnabas.
Barnabas sembra un piccolo Giobbe, il quale per le proprie sventure non inveisce contro Dio ma non si arrende mai con una caparbietà molto irlandese e cerca di risollevarsi, comincia a chiedere aiuto, trovando l’opposizione di una comunità rancorosa e diffidente verso colui che considerano uno straniero, uno straniero a casa propria che prospetta di vendere i terreni per ricostruire la stalla trovando le resistenze della stessa moglie per la quale nutre un grande amore. La neve nera infatti è anche una grande storia d’amore, quella tra Barnabas e Eskra Kane. Dice quest’ultima parlando al figlio:

Ci tirerà fuori da questa situazione. Quando l’ho conosciuto tuo padre era più furbo di tutti quelli che lavoravano con lui. Era sempre sporco e ricoperto di grasso, beveva un po’ troppo ma aveva quell’intelligenza dentro di sé. Me ne sono accorta subito. Ho capito che se fosse nato in un ambiente più favorevole sarebbe diventato qualcuno. In America era partito dal niente e tutto quello che aveva costruito era riuscito a guadagnarselo senza l’aiuto di nessuno. Sai, quando siamo venuti qua ho avuto la sensazione che gli stessimo restituendo la sua vera vita. Che avesse il diritto di ritornare nel suo paese.

Troppa importanza ai ricordi

La dolorosa lotta per la sopravvivenza ricorda alcuni romanzi realisti di grandi autori americani del Novecento quali Erskine Caldwell o John Steinbeck e allo stesso tempo il quadro che si staglia dal romanzo è quello di una società (quella irlandese del secolo scorso) chiusa, bigotta e tradizionalista, espressione di quel senso di paralisi che pervade molto dell’opera di un grande predecessore letterario di Paul Lynch, quel James Joyce, lo scrittore “cosmopolita” che infatti ha girovagato in lungo e in largo per l’Europa dove ha composto gran parte dei suo capolavori fuggendo dall’oppressiva terra di origine. «Il vero problema è che date troppa importanza ai ricordi. Vivete nel passato. Funziona così, da queste parti. Convivete con i fantasmi piangendovi addosso, con lo sguardo sempre rivolto all’indietro. Incapaci di affrontare il futuro, di far progredire questo paese». Così si rivolge Eskra a uno degli abitanti del villaggio che al pari degli altri mostra rancore e opposizione ai Kane, con la crescente ansia che si respira in famiglia nella quale progressivamente si insinua il sospetto che l’incendio alla fattoria sia stato causato intenzionalmente da qualcuno di loro accrescendo la tensione del racconto e catapultandolo verso un drammatico finale.

Scene di cruda potenza quali gli incubi di Barnabas, espressione dei suoi sensi si colpa per la morte del bracciante, la morte nel fuoco delle giumente, la loro sepoltura, la cruenta uccisione del cane di Billy o l’attacco di un nido di vespe ad Eskra, il suo incontro con la vedova del bracciante morto nell’incendio, e altre di una nitida crudezza che svelano l’animo oscuro e la malvagità dell’essere umano sono intercalate dai racconti sotto forma di monologo interiore del figlio Billy che svelano le sue disavventure con lo Schiacciapatate, un po’ il matto del villaggio, il quale verrà di fatti rinchiuso in un manicomio, racconti dai quali emerge un torbido passato dal quale scaturiranno tragiche conseguenze.

Cristiani solo di nome

La grande storia rimane sullo sfondo in La neve nera, della guerra solo qualche brandello di notizia: «i giornali dicono che il mondo intero è in piena trasformazione ma da queste parti è come se non esistessimo». Il mondo che va in frantumi nella piccola comunità del Donegal è quello di una famiglia che per l’irragionevolezza e la stupidità dell’uomo, che per cause insipide causa liti e conflitti creando piccole e grandi tragedie, viene annientata: «Comprese che il loro mondo stava andando in frantumi, che per qualche ragione erano caduti in disgrazia e il loro ordine invisibile aveva cessato di esistere, e non riusciva a capire perché e come erano giunti fin lì».
La natura impassibile e liricamente descritta non si cura dei minimi e dolorosi avvenimenti causati da attori inconsapevoli di un dramma: «la gente di qua è timorata di Dio, ma di cristiano ha solo il nome. Riesce a vedere solo i propri interessi personali».
Un quadro non certo confortante che non può che trovare il naturale epilogo in un finale tragico per un romanzo struggente e poetico che in ogni caso parla di quello che può essere la vita su questa terra quando il lato oscuro dell’essere umano prende il sopravvento come Paul Lynch riesce sempre a mostrare nei suoi romanzi.

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