Ricordando Kurt Cobain, l’amico fragile della X Generation

Il 5 aprile 1994 nella sua casa di Seattle, con un colpo di fucile, si toglieva la vita Kurt Cobain, 27 anni, frontman dei Nirvana, band di nicchia dei prima anni ‘90, divenuta un cult per la quella che è passata agli annali della statistica come la X Generation. A distanza di 30 anni dalla morte, diversi i titoli in uscita, ne abbiamo letti due: “Territorial Pissings”, raccolta di interviste, e la biografia “Più pesante del cielo” di Charles R. Cross 

La mattina del 9 aprile 1994, come ogni giorno, facevo colazione ascoltando il telegiornale. Quella mattina il succo di arancia divenne di colpo imbevibile, il giornalista diede la notizia della morte di Kurt Cobain, il cadavere era stato scoperto il giorno prima, l’8 aprile, nella sua casa di Seattle da un operaio della rete elettrica.

L’identificazione culturale della X Generation

Ricordo la sensazione di incredulità. Sì, ok, lo sapevamo tutti che Cobain era fuori di testa, si faceva e si strafaceva, due mesi prima era andato in overdose a Roma e il concerto dei Nirvana era stato annullato. E in fondo ci aspettavamo anche la possibilità di una notizia del genere, ma il suicidio volontario con un colpo di fucile, no, quello era uno shock. Volontariamente Cobain ci aveva privato della catarsi che passava attraverso la sua voce profonda, roca, intima anche nelle urla scomposte del Grunge; ci aveva privato del sound della ribellione, del gridare tutti insieme che tanto bene nel mondo dei nostri genitori non stavamo e che volevamo cambiare le cose, in qualche modo.

Era il 1994 un anno che per me avrebbe significato molto, un anno di trasformazione, di crescita e dell’acquisizione di una consapevolezza tali da farmi pensare a quello come uno degli anni più importanti della mia vita. Però Kurt Cobain era morto e questo era un shock personale e collettivo, nonostante avesse occupato la scena musicale mondiale per quanto? tre anni? Forse proprio per questo, perché non era vecchio, perché non aveva ancora ripetuto sé stesso, perché innovava con ogni disco pensare di non averlo più sconvolgeva chi lo seguiva e seguiva in Nirvana anche nelle periferie dell’impero, magari pogando male in una cantina con la musica a tutto volume.

Tre album di brani inediti in studio, un album unplugged registrato durante il live per MTV a New York con brani propri e cover, sette anni di attività artistica, poca roba tutto sommato, eppure i Nirvana hanno forgiato l’immaginario del rock ponendosi come il benchmark del Grunge. È controintuitivo pensare che un band presente sulla scena prevalentemente locale e americana per così pochi anni possa essere diventata il riferimento di una generazione. Il disagio di Cobain in realtà esprimeva il disagio di una intera generazione, una generazione schiacciata dal consumismo e dall’onda lunga del neoliberismo reganiano e thatcheriano.

Le interviste in Territorial Pissings

Territorial Pissings (traduzione di Assunta Martinese, Minimum Fax, 116 pagine, 16 euro) raccoglie alcune interviste rilasciate da Cobain e dai membri della band tra il 1990 e il 1994 fino all’ultima, registrata poche settimane prima del suicidio. Il lavoro di raccolta fatto da Martinese è un tuffo nella mente e nel pensiero del cantautore. Dalle interviste rilasciate emergono la consapevolezza dell’estraneità di Cobain rispetto alla società capitalistica americana, la lotta costante per la sopravvivenza, dal pagare l’affitto a mangiare cibo decente almeno una volta al giorno, le difficoltà durante i tour nei locali della scena alternativa statunitense quando i soldi se ne andavano per sostituire le chitarre sistematicamente distrutte sul palco.

Cobain si presenta come un antidivo in netta e consapevole contrapposizione con il mondo ormai patinato delle star dell’Hard rock. In una delle interviste riportate, rilasciata nel ‘93, Cobain si scaglia contro Axl dei Gun’s ‘n Roses, deridendolo perché schiavo della sua immagine e del suo stesso successo, asservito alla logica del guadagno e dunque servo della musica commerciale.

Dalle interviste emerge anche chiaramente la visione di un Kurt Cobain contrario ad un capitalismo cannibale e allo stesso tempo emerge la contraddizione insita in una generazione che ad alcuni aspetti del consumismo non riesce a rinunciare, quella contrapposizione che Cynthia Cruz spiega magistralmente nel suo saggio Melanconia di classe (Atlantide edizioni).

È forse più chiaro oggi a distanza di trent’anni dalla morte come nella poetica di Cobain ci siano tutte le idee alla base delle lotte della X Generation: la distanza dal lusso, la dimensione No Global, i diritti civili e umani, quelli che la mia generazione avrebbe letto nel libro manifesto in The Prosperous Few and the Restless Many (1993) di Noam Chomsky, in No Logo (1999) di Naomi Klein, le manifestazione alle riunioni internazionali dei vertici mondiali, il rifiuto di una società sessista e machista.

Hey

Wait

I got a new complaint

Forever in debt to your priceless advice”

I Nirvana più volte dichiarano di non accettare alcuna forma di discriminazione e razzismo. Il contrastato e criticato pezzo Rape me (In Utero, 1993) non è un elogio dello stupro, ma l’urlo di rabbia di una donna stuprata che promette vendetta. Così il testo di Teen spirit ribadisce quella sensazione di diversità rappresentata da “a mulatto, an albino” persone ai margini come ai margini si sentiva il compositore, senza mai avanzare un’appropriazione culturale.

In Polly (Nevermind, 1991) si racconta tutto il disagio di una ragazza che pratica autolesionismo, nel testo non c’è tentativo di conforto né condanna, solo il raro dono della comprensione.

Never met a wise man

If so, it’s a woman”

Dalle parole delle interviste emerge anche tutta la fragilità di un ragazzo cresciuto nel disagio che non riesce e non vuole fare i conti con una notorietà che non sa gestire e che amplifica quella che sente come la sua malattia, quei dolori continui allo stomaco, sintomi psicosomatici che lui tenta di lenire con l’uso di droghe pesanti. La dipendenza dall’eroina è nominata una sola volta e in un momento in cui Kurt ne è libero, disintossicato dopo la nascita della figlia avuta con Coutney Love.

Di Coutney e Frances, Kurt Cobain parla spesso come della cosa migliore della sua vita, una vita che cerca riscatto principalmente in quella dimensione affettiva ed emotiva che da bambino e da ragazzo è mancata e di cui sente un estremo bisogno.

Le interviste mettono in risalto anche il genio creativo di Cobain, un autodidatta della musica, un compositore geniale nella capacità di utilizzare linguaggio feroce e parole taglienti per raccontare inquietudine e disagio. Alle domande sulle modalità e le tecniche di registrazione, sull’utilizzo degli strumenti e del mixaggio risponde con una consapevolezza e una preparazione che non rispecchiano i suoi 25 anni e che raccontano una conoscenza musicale professionale e avanzata. Cobain e i Nirvana sanno esattamente cosa la loro musica debba esprimere e ci arrivano per tentativi. Una genialità dimostrata dalla longevità della loro musica entrata di fatto nell’Olimpo del rock classico.

Leggendo le interviste ho capito una cosa, Kurt Cobain era profondamente ironico e autoironico, si prendeva sul serio nella sua complessità ma non non si limitava all’autocommiserazione; era un ragazzo un po’ sornione che aveva voglia di scherzare e ridere e vivere. Tanto.

La biografia partecipata di Cross: Più pesante del cielo

Più pesante del cielo (traduzione di Giancarlo Carlotti, Il Saggiatore, 464 pagine, 26 euro) di Charles R. Cross è la biografia più approfondita e dettagliata scritta sul frontman dei Nirvana. La prima edizione risale al 2001, realizzata da Cross per l’anniversario decennale dell’uscita di Nevermind (1991) e riedita a trent’anni dalla morte di Cobain con alcuni capitoli integrativi.

Si tratta di un’opera imponente nonostante la breve vita del personaggio, poco meno di 500 pagine, 400 interviste realizzate, una certosina raccolta di documenti di ogni tipo, la partecipazione di praticamente tutte le persone rilevanti nella vita del cantautore.

La biografia indaga le ragioni ancestrali del malessere esistenziale di Cobain da rintracciare in una famiglia disfunzionale che arriva a somministrare psicofarmaci ad un Kurt bambino con problemi di iperattività.

La biografia indaga anche il conflitto costante di Kurt Cobain con il mondo esterno e le sue manifestazioni a partire da quella fama improvvisa che irrompe nella sua vita nel 1991 con la pubblicazione di Nevermind e di quello che per il Grunge e tutta la Gen X resta l’inno inarrivabile Smells like teen spirit, singolo passato inosservato nelle prime settimane, poi intercettato da MTV che lo trasmette di continuo facendo balzare la band in vetta alle classifiche, e contribuendo ad attivare un movimento a valanga per tutti gli altri gruppi del Grunge, più o meno famosi preesistenti e successivi ai Nirvana che trovano spazio per una popolarità oltre i confini nazionali.

La vera forza di questa biografia sta però nell’approccio dell’autore. Cross è un giornalista musicale nato nello Stato di Washington; si trasferisce a Seattle a fine anni ‘80 per seguire le evoluzioni di quel caleidoscopio di creatività musicale che la città rappresenta in quel periodo. Ci sono centinaia se non migliaia di piccoli locali nei quali le band si esibiscono dal vivo, alcune resteranno confinate ad una dimensione locale, molte scompariranno nel giro di qualche anno nell’anonimato, altre resteranno nella storia del Rock: Mother love bone (dal cui nucleo Gossard/Ament deriveranno i Pearl Jam alla morte per overdose del frontman Andrew Wood e con il successivo arrivo di Eddie Vedder), i Soundgarden di Chris Cornell (voce inarrivabile, chitarrista di livello) famosi molto e prima dei Nirvana e che con i PJ daranno vita ad una superband rimasta nel mito, i Temple of the Dog. E ancora gli Alice in chains, i Mudhoney, Scraeming Trees, e l’elenco potrebbe continuare di molto.

Dicevamo, Cross entra in contatto con questo mondo in pieno fermento, conosce tutti i musicisti, i produttori, i frontman, i locali migliori e quelli dove scoprire le nuove band. Cross è perfettamente integrato e cresce nell’aria grunge di Seattle, ne è imbevuto. Quella che scrive non è solo la biografia di Cobain, è il racconto della sua stessa vita. Il libro quindi non è una fredda ricostruzione giornalistica, è la partecipata narrazione di un mondo di cui Cobain è protagonista, il punto di vista non è mai distaccato. Sebbene si possa riconoscere all’autore lo sforzo di portare oggettività nei fatti, Cross è emotivamente e profondamente coinvolto.

Un altro punto fondamentale di questo libro, a mio avviso, è la narrazione del rapporto tra Kurt Cobain e Courtney Love. I media hanno assunto spesso un atteggiamento distruttivo e denigratorio nei confronti di Love. In quella che è una logica patriarcale consolidata, a Courtney è stata imputata la ragione cardine del suicidio di Kurt, a lei sarebbe stato da ascrivere come colpa il ritorno alle droghe pesanti. Si vociferava di tradimenti di lei, di come lei sfruttasse il genio creativo di Kurt per scrivere pezzi per sé e per la band di cui era frontwomen. Quante volte è stato ripetuto che Live Through This (1992) sia stato il quarto album dei Nirvana perché frutto delle idee di Cobain. Cross invece riporta la figura di Love nella giusta dimensione, in un contesto relazionale complesso e disfunzionale ma in cui lei non rappresenta la Strega malefica che succhia le energie dell’ingenuo angelo caduto tra le sue grinfie.

Si tratta di un aspetto per me fondamentale per definire una narrazione reale e soprattutto per evitare il rischio di infantilizzare Kurt Cobain, un uomo sì giovane, ma con idee precise e una dimensione interiore e spirituale tale da consentirgli di non essere strumentalizzato da arcane forze femminine.

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