Dare forma al caos, ecco il capolavoro di Virginia Woolf

“Gita al faro” è il libro della piena maturità per Virginia Woolf che, tra spazi circoscritti e luoghi simbolici, ci offre l’esperienza di un’intima verità. È un’opera sui segni profondi e irreversibili del tempo, sul desiderio di trovare una forma unitaria a una realtà frammentata…

Gita al faro è il capolavoro di Virginia Woolf, il romanzo in cui l’autrice raggiunge la piena maturità del suo stile artistico, trovando una voce che la rappresenta in modo autentico. Un’opera senza una trama convenzionale, che non si legge ma si vive, si ascolta, si assimila. È una composizione di immagini, pensieri e simboli che sembrano disgregati, ma che alla fine si ricompongono in una coerenza rivelatrice.

In fondo, Gita al faro è una grande metafora: della vita e della morte, della memoria e della perdita, del tempo che scorre e della solitudine che spesso ci accompagna, ma anche della condivisione, della fragile bellezza dell’esistenza. E, sopra ogni cosa, dell’arte. È un tentativo audace e struggente di dare forma al caos.

Perché la vita, ci dice Woolf, raramente si presenta come un racconto lineare. È piuttosto una sequenza di frammenti, episodi isolati che viviamo uno alla volta. Ma poi, all’improvviso, arriva un lampo di consapevolezza, una rivelazione: quei frammenti si uniscono in un disegno più ampio, che ci restituisce il senso del nostro essere al mondo. È in quell’attimo, in quei “momenti di essere” – come li definisce Woolf – che viviamo davvero. Ed è proprio questo che il romanzo ci offre: l’esperienza di un’intima verità.

Il narratore quasi invisibile

Gita al faro è, in fondo, una saga familiare. Al centro, c’è la famiglia Ramsay, ispirata direttamente a quella di Virginia Woolf: i signori Ramsay sono i suoi genitori reali, Lily Briscoe richiama la sorella Vanessa, Prue evoca la figura di Stella. Quanto a Virginia, è un po’ ovunque: è Cam sulla barca, che odia e ama il padre; è Lily, l’artista alla ricerca di una forma per la propria arte.

La narrazione non si affida a una trama tradizionale, ma prende avvio da una scena semplice: nella casa di villeggiatura sull’isola di Skye, la famiglia Ramsay si riunisce con alcuni amici. James, uno dei figli più piccoli, è deluso: ancora una volta gli viene detto che il tempo non sarà favorevole per una gita al faro il giorno seguente. Da questa attesa mancata prende forma un intreccio di emozioni, pensieri e memorie che attraversano gli anni.

Con questo romanzo, dobbiamo ormai dire addio allo scrittore come narratore di fatti oggettivi: il narratore diventa quasi invisibile, perché il suo ruolo è quello di farsi tramite dei pensieri dei personaggi. Ci sono pochi dialoghi, tutto avviene nella mente dei protagonisti. Questo può inizialmente disorientare il lettore: i pensieri si succedono con tale rapidità e fluidità da far smarrire, a tratti, il filo del discorso. Ma proprio in questa apparente confusione risiede la forza innovativa del romanzo. Woolf adotta una tecnica che la critica ha definito “monologo interiore indiretto”: un procedimento che permette una transizione fluida tra la voce del narratore e quella dei personaggi, facendo in modo che entrambe le voci coesistano. Questo non va confuso con il flusso di coscienza puro — dove i pensieri del personaggio sono espressi senza mediazione. La tecnica di Woolf le consente di esplorare una pluralità di punti di vista senza rinunciare all’unità narrativa. Il risultato è una narrazione che accoglie la molteplicità dell’esperienza umana, senza mai imprigionare il lettore in una sola prospettiva.

La percezione

Il tempo del realismo è dunque finito: Virginia Woolf non vuole più rappresentare la realtà così com’è. Per lei, scrivere non è un atto razionale, ma qualcosa che nasce dal sentire, dalla percezione profonda e soggettiva dell’esperienza. I suoi personaggi sono, prima di tutto, esseri sensibili e percettivi, e uno dei temi centrali di Gita al faro è proprio quello della visione. Lo si ritrova, sia nella struttura narrativa del romanzo (i continui cambi di prospettiva), sia nei suoi contenuti: Lily Briscoe, la pittrice, è l’osservatrice per eccellenza. Ma, in verità, tutti i personaggi osservano e vengono osservati. La maggior parte delle informazioni che abbiamo sui personaggi, ci giunge mediata dalla percezione degli altri: ciascuno è, al tempo stesso, soggetto e oggetto di osservazione. Non è un caso che la prima parte del romanzo si intitoli La finestra — una metafora dell’atto di guardare.

Il tempo

Un altro tema fondamentale è quello del tempo, reso esplicito già nel titolo della seconda parte del romanzo: Il tempo passa. In queste pagine, Virginia Woolf riesce davvero a restituire al lettore la percezione del tempo che scorre, in modo quasi destabilizzante. Dopo la prima parte, in cui vengono narrate solo poche ore — il tardo pomeriggio e la cena di una giornata estiva — descritte in un centinaio di pagine, si passa improvvisamente a un salto temporale di dieci anni, condensato in appena una quindicina di pagine. Anche qui, il tempo non è solo un tema, ma una vera e propria struttura portante del romanzo. Si riflette nella tecnica narrativa — il tempo, prima dilatato, ora accelera vertiginosamente — e nelle vicende dei personaggi, che cambiano, scompaiono, si ritrovano diversi.

Nella prima parte, Mrs Ramsay non fa che esprimere le sue ansie legate al tempo che passa: il suo desiderio più profondo è che qualcosa possa durare, che nulla cambi. Vorrebbe fermare il tempo, o almeno rallentarne il flusso per godere appieno dei suoi figli, delle vacanze, della bellezza effimera di quei giorni al faro (“Vita, fermati qui”). Ma Virginia Woolf demolisce crudelmente queste illusioni. Ci mostra che il tempo è spietato, indifferente. La rapidità con cui dieci anni vengono raccontati in appena quindici pagine è una scelta narrativa che ha anche un valore simbolico: una riflessione amara e quasi ironica sulla fugacità della vita e sull’impossibilità di fermare davvero il tempo.

Nella terza parte del romanzo, assistiamo alle conseguenze di questo scorrere inesorabile. Se nella prima parte la casa sull’isola di Skye era piena di vita, voci, presenze, ora la ritroviamo vuota, segnata dal tempo, abitata da pochi personaggi e da un senso diffuso di solitudine. I protagonisti vi fanno ritorno con la speranza, o forse l’illusione, di ritrovare tutto com’era. Ma il tempo ha lasciato segni profondi e irreversibili: ciò che era, non è più. E per quanto possiamo cercare di ricostruire un momento del passato, esso rimane irrimediabilmente lontano.

L’unità

Gita al faro (XXII + 216 pagine, 10 euro), tradotto da Anna Nadotti per Einaudi, è un romanzo che esplora la ricerca di un senso, il desiderio di trovare una forma unitaria per una realtà che si presenta frammentata e dispersa. Questo bisogno di unità si riflette nei personaggi di Mrs Ramsay e Lily Briscoe, ciascuna delle quali cerca di ricomporre i pezzi del mondo in modi diversi.

Mrs Ramsay desidera creare unità non a livello estetico, ma in un senso più pratico e relazionale: ” Nulla sembrava essersi amalgamato. Erano seduti ognuno per conto proprio. E tutto lo sforzo di amalgamare e rendere fluido e creare ricadeva su di lei.” Mrs Ramsay sente come propria la responsabilità di unire le persone, di colmare le distanze tra di loro. La sua aspirazione è quella di creare legami più profondi e significativi: dal matrimonio tra Minta e Paul, alla connessione tacita tra lei e Mr. Ramsay, con una comprensione reciproca che supera la mera comunicazione verbale.

Lily cerca, attraverso la pittura, ciò che la signora Ramsay cerca nella vita: unione e coerenza. “Ecco là il muro; la siepe; l’albero. Il problema riguardava una certa relazione tra quelle masse.” Lily osserva immagini distinte e il suo desiderio è di fonderle, di amalgamarle in una forma unica e coerente, proprio come la signora Ramsay vorrebbe fare con le persone. Per Lily, l’unità crea ordine, stabilità è un tentativo di fermare la furia distruttiva del tempo. Ecco perché è un pensiero ricorrente per la signora Ramsay, per Lily, per Virginia stessa: “c’era una coerenza nelle cose, una stabilità. […] Di tali momenti, pensa, è fatta la cosa che dura per sempre.” Virginia descrive qui un vero e proprio ‘momento di essere’, un’illuminazione, una rivelazione che porta a una comprensione profonda della realtà. È in questi momenti che si intravede un significato duraturo, che sembra resistere al caos del mondo.

Come Lily cercava di unire i frammenti di una realtà (muro, siepe, albero), così, alla conclusione del libro, anche noi lettori ci ritroviamo a connettere gli elementi sparsi nel testo: il mare, la casa, il faro, il quadro.

La casa

In questo romanzo, Virginia si muove in spazi molto circoscritti – una casa, una spiaggia, una cena – ma in questi piccoli spazi riesce a scavare in profondità. La casa, in particolare, rappresenta il cuore pulsante del romanzo.

Un contrasto forte emerge tra la casa affollata della prima parte del libro e quella vuota e desolata della seconda. Quando il narratore ci offre uno spaccato del destino dei personaggi nei dieci anni successivi, l’azione non segue i personaggi nei loro spostamenti, una volta lasciata la casa delle vacanze sull’isola di Skye. Invece, la narrazione rimane fissa sulla casa, come una macchina da presa che, invece di muoversi con gli attori, resta ferma in un punto mentre sono i personaggi ad allontanarsi o avvicinarsi a essa. In questo caso, il punto di vista narrante rimane ancorata all’ambientazione della casa, mentre i personaggi si spostano fuori dalla nostra vista.

Questa tecnica è particolarmente significativa, perché amplifica gli effetti del passare del tempo. Rimanendo ancorato alla casa, il narratore ci mostra un luogo che ora appare vuoto, in contrasto con la sua vivacità iniziale. La casa è ammuffita, rovinata, decadente. Se prima la casa simboleggiava l’unità, il rifugio, il centro della vita familiare, ora diventa il simbolo della perdita, della disgregazione, della discontinuità, che rispecchia il destino della famiglia stessa.

Il mare

Come già accadeva ne La crociera, anche in Gita al faro il mare è un elemento dominante. Il mare, in generale, potrebbe essere simbolo di vita e di morte. Nella prima parte del romanzo, il mare è agitato (ed è proprio ciò che impedisce la tanto desiderata gita al faro). Come la vita, anche il mare è in continuo movimento, e rispecchia l’inquietudine dei personaggi, il tumulto dei pensieri che si susseguono rapidi e caotici nella narrazione. Nella terza parte, invece, il mare è calmo. Ma questa quiete non assume caratteristiche positive; piuttosto, sa di morte. I personaggi sono pochi, i pensieri si diradano. La gita al faro ora può finalmente compiersi, ma ha perso la sua magia.

Il faro

Il faro racchiude invece il tema dell’illusione e della disillusione, strettamente legato al passaggio dall’infanzia all’età adulta. Quando James, ormai cresciuto, raggiunge finalmente il faro, non prova gioia, ma delusione. Se nella prima parte, il faro rappresentava il desiderio infantile (momento dell’infanzia), nella terza parte rappresenta semplicemente un compito da eseguire (vita adulta). Il faro è dunque il simbolo delle illusioni distrutte: prima oggetto desiderato, adesso, viene visto per quel che è realmente, ovvero un semplice faro come tutti gli altri. All’inizio, James lo vedeva con gli occhi del bambino: “una torre argentea, dall’aspetto nebbioso, con un occhio giallo che si apriva all’improvviso e silenzioso nella sera”, ma da adulto, la sua visione è meno fiabesca: “vide le rocce, bianco calce. La torre, dritta e rigida; vide che era dipinta a strisce bianche e nere; vide le finestre; vide persino la biancheria stesa al sole ad asciugare. E così quello era il Faro, era quello?”.

Questa trasformazione del faro riflette uno degli elementi strutturali del romanzo: la sua circolarità. La narrazione inizia sull’isola di Skye e lì si conclude, ma nel frattempo tutto è cambiato. L’infanzia ha ceduto il posto all’età adulta, la compagnia alla solitudine, la vita alla morte. E il faro — prima simbolo di speranza e di attesa — si rivela, infine, per quello che è: una semplice costruzione tra le rocce.

Il quadro

Arriviamo infine al quadro uno degli elementi più simbolici del romanzo, che può essere letto quasi come un riferimento metatestuale: un’immagine dell’opera stessa che stiamo leggendo, o più in generale dell’arte di Virginia Woolf. È il filo sottile che collega la prima e la terza parte del romanzo.

Lily aveva iniziato il suo quadro all’inizio della narrazione, ma non era mai riuscita a finirlo. Ora, tornata sull’isola di Skye dopo molti anni, può finalmente completarlo. Tuttavia, la realtà intorno a lei è cambiata: molte persone non ci sono più, gli oggetti hanno perso la loro familiarità. L’unica materia prima a cui può attingere sono i ricordi e l’immaginazione. Ed è proprio da questi frammenti che cerca di ricostruire un’immagine coerente.

Adesso Lily, l’osservatrice, Virginia stessa, tenta di rimettere insieme i pezzi, di dare un’unità al caos della vita e delle esperienze. Lily, l’artista, colei che unisce, vuole fare quello che si augurava Mrs Ramsay: creare qualcosa che rimanga per sempre, fermare il tempo, e lo fa attraverso la sua arte. Un’arte che diventa un atto terapeutico: per Virginia, come per Lily, dipingere (scrivere) significa affrontare i fantasmi del passato, riconciliarsi, fare pace con essi.

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