Zaccuri: “I classici, compagni e non monumenti”

L’autore de “Il signor figlio” tra passato, presente e futuro: dal suo libro più famoso all’ultimo saggio, fino a una serie che curerà, “sulle parole implacabili della nostra tradizione culturale”

Saggista, giornalista, narratore, curatore di una serie imminente per una casa editrice giovane e vitale. Le varie anime di Alessandro Zaccuri – ligure trapiantato a Milano, con avi calabresi e triestini – sono in cammino, in continuo movimento. Il filo rosso è la fede nella letteratura e in questi tempi, in cui molti letterati sono i primi disincantati a riguardo, non è poco. La prova più recente del suo percorso umano e professionale è Come non letto. 10 classici più uno che possono ancora cambiare il mondo (194 pagine, 14 euro), edito da Ponte alle Grazie. Alcuni classicissimi della letteratura sono al centro della scena.

Zaccuri, quale è la genesi del suo ultimo saggio?

«Nasce tutto da un’esperienza felice, da un’occasione in cui la letteratura, che per alcuni serve a poco o a niente, è riuscita a mettersi al servizio di progetti concreti, ovvero alcuni incontri sui classici, che servivano a invogliare la partecipazione a una raccolta di beni di prima necessità, da destinare ai bisognosi. Sono appuntamenti che, a Milano, portiamo avanti da quasi tre anni e hanno sempre riscosso un certo interesse. A me, che ho avuto la fortuna di trasformare l’amore per i libri in un lavoro e in una consuetudine quotidiana, ha permesso di restituire qualcosa ad altri, in particolare parlando di quei grandi classici che, per dirla alla Calvino, non hanno mai finito di dire quello che devono dire».

Quanto è stato difficile selezionarne un numero limitato?

«Di certo sono troppo pochi per costituire un canone. Ne ho scelti dieci che penso siano nella mente di tutti, in un angolino della memoria, non necessariamente letti per intero, ma di pubblico dominio. Sappiamo tutti dei mulini a vento nel Don Chisciotte, della balena in Moby Dick e così via. Per fare un percorso più completo con i classici, ne sarebbero serviti tanti altri, ma ho seguito un criterio ben specifico e mi sono anche un po’ autocensurato. Mi spiego, di Dickens amo molto Grandi Speranze, ma non è proverbiale come Oliver Twist».

Quale caratteristica accomuna questi capolavori?

«Non sono distanti dalla quotidianità, contengono domande e dubbi che affrontiamo tutti i giorni, vanno incontro a bisogni reali. Sarebbe bello considerarli dei compagni di viaggio e non dei monumenti polverosi».

La “bonus track” di Come non letto è La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec, una chiosa perfetta da cui sembra potere ripartire tutto…

«Perec è uno scrittore straordinario con un’incredibile storia personale. Questo suo libro ha addosso le conseguenze della crisi del romanzo, ma è molto contemporaneo. Racconta le possibilità e il fallimento di una comunità. Quando l’ho letto pensavo che in generale riaprisse il gioco del romanzo, da cui ripartire».

L’intento solidale va al di là degli incontri milanesi e prosegue con questo volume…

«Sperando che i diritti d’autore maturino. Saranno destinati all’associazione Nocetum che, alle porte di Milano, tra il confine sud e la campagna, dà accoglienza alle madri giovani in difficoltà, spesso straniere. Si sa che nei periodi di maggiore crisi e nelle situazioni di povertà sono le donne il più delle volte a pagare un prezzo molto alto».

Il suo ultimo romanzo, Lo Spregio, pubblicato da Marsilio, ha vinto il premio Mondello Giovani e continua a fare strada, chiudendo il cerchio su un lungo discorso attorno alla paternità che è centrale nella sua narrativa…

«In giro per l’Italia ho ancora in programma alcune presentazioni, nonostante sia sulla piazza da circa un anno e mezzo. Ne Lo Spregio, che credo abbia qualche debito con Sciascia, nella forma, non dico nella qualità, porto alle estreme conseguenze il rapporto padre-figlio, pensando a quanto possa non funzionare, ma anche nell’apparente fallimento di questo rapporto importantissimo può esserci qualcosa di vitale. Avviene così anche nel rapporto fra il Moro e il trovatello che diviene suo figlio e considera cosa sua, ne parlo come della nascita di un padre. Credo di avere sviscerato il tema e di potermi dedicare, d’ora in poi, davvero ad altro».

Succede a molti scrittori di essere identificati come gli autori di un certo libro, quello di più largo successo, o del debutto positivo. Accade anche a lei con Il signor figlio, il romanzo con cui si è rivelato al grande pubblico, edito da Mondadori (ma non facilmente reperibile da un po’…). Ne soffre? O è motivo di soddisfazione?

«Sono molto contento di essere ricordato come l’autore de Il signor figlio e mi auguro torni presto disponibile. Non era tecnicamente il mio esordio, ma certamente quello che mi ha dato slancio ed entusiasmo. Penso di avere rischiato con un obiettivo molto ambizioso e non mi sembra di averlo tradito troppo, se si considera il percorso di questo titolo, che inevitabilmente, visto che Giacomo Leopardi era il protagonista, aveva fra i suoi strumenti principali l’erudizione. Non ho però voluto che quello diventasse il mio genere, da allora ho scritto cose molto diverse. Negli anni successivi ho tentato di raccontare una parte di mondo in modo più realistico, cercando di capire quanto la dimensione metaletteraria e delle citazioni fosse per me indispensabile e quanto fosse al servizio del racconto. Mi sono reso conto che per me è certamente importante, ma anche che bisogna dosarla. Il mio prossimo progetto narrativo prevede un ritorno al racconto contaminato dall’erudizione, ma dopo aver fatto una certa traversata personale, ovvero con l’esperienza maturata in questi anni. Il signor figlio nasceva come saggio narrativo sul rapporto tra padri e figli attraverso l’arte, ma durante la scrittura mi sono accorto che c’era la possibilità di donare una vita immaginaria a Giacomo Leopardi e, strada facendo, ha preso il sopravvento questa dimensione. Adesso pensare a questo tipo di soluzioni mi verrebbe più istintivo».

Per NN editore curerà la serie Crocevia, che sarà inaugurata da Di ferro e d’acciaio di Laura Pariani. Di cosa si tratta?

«La serie è sulle parole implacabili della nostra tradizione culturale, parole del lessico del cristianesimo, un tema che mi sta molto a cuore. Sono parole spesso banalizzate o travisate, che però conservano forza e necessità. L’idea è dell’editore e, sapendo che mi stava a cuore, mi ha coinvolto. Saranno cinque, sei titoli, e saranno pubblicati fra 2018 e 2019. Il primo libro è firmato da Laura Pariani, la parola chiave è passione, di magnifica ambiguità, intesa come estrema sofferenza e come estremo amore, con uno sguardo alla passione di Cristo, a Maria…».

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