Hjorth, la neve, il testamento e i cocci di famiglia

Bergljot è la protagonista di “Eredità”, romanzo della norvegese Vigdis Hjorth. La donna ha rotto con genitori e fratelli da oltre vent’anni. Una lettera le preannuncia l’esclusione da una parte dei lasciti dei genitori. Una mossa che nasconde segreti, che spiega tanti anni di analisi, fra incubi, domande e pessimi ricordi

In un paesaggio fatto di neve, tormentata dalla pioggia che ne rovina il suo candore, in una profonda Norvegia, un cane rincorre libero i fiocchi di neve e una poesia di Tove Ditlevsen riecheggia sulle colline: «È la strada dell’infanzia […] a costituire la radice del mio essere».

Una lunga lontananza

Da ventitré anni Bergljot – protagonista di Eredità (432 pagine, 18,50 euro) della norvegese Vigdis Hjorth, tradotto da Margherita Podestà Heir per Fazi – ha rotto con la sua famiglia. Non ha impedito che i suoi figli continuassero a frequentare i loro nonni, gli zii e i cugini con cui andavano d’accordo, ma lei no. Ha preferito allontanarsi, non dover sottostare alla commedia che ogni Natale, compleanno o ricorrenza che dir si voglia, veniva replicata dai propri congiunti. Eppure quando tre anni fa, quando suo padre aveva inviato a lei e ai suoi fratelli una lettera, qualcosa ha iniziato a muoversi. Veniva messo in chiaro, per iscritto, che alla morte dei genitori i quattro figli avrebbero ereditato in parti uguali. Fin qui niente di strano. In fondo, anche senza un testamento, sarebbe stata la legge a garantire che tutto venisse spartito in parti uguali. Se non fosse che qualche giorno fa, Bergljot ha ricevuto la notizia che le due case di Hvaler, a strapiombo sul mare, sarebbero state intestate alle sue sorelle più piccole, Astrid e Åsa (escludendo lei e suo fratello Bård dal poterne usufruire) e che a loro sarebbe stata saldata la parte corrispondente in denaro. Ora, si sa che le serpi migliori crescono in seno alle famiglie e quella di Bergljot non è da meno, «ogni cosa è connessa alle altre. Per chi si muove con le orecchie tese allo scopo di capire – si legge nel romanzo di Hjorth – nessuna frase risulta innocente».

Il motivo della rottura

Proprio quando pensava, dopo ventitrè anni, tanti dei quali passati in analisi, di aver rimosso, accantonato, eliminato, fatto pace, decidete voi, con il suo passato, chiedendosi «è strano pensare a quanto sia casuale conoscere persone che saranno decisive per l’evolversi della nostra vita, persone che ci influenzeranno o ci indurranno a compiere scelte tali da trasformare la direzione della nostra esistenza. O forse la casualità non c’entra?». Quando credeva che la “cosa”, motivo di rottura con la sua famiglia, fosse ormai accantonata, ecco che un “semplice” testamento rimette tutto in discussione, «la vergogna mi accompagnò per tutta la notte, non riuscii a dormire dalla vergogna di non essere adulta, di non essere stata capace di esprimermi in modo maturo ed equilibrato, del perché ero tornata bambina». Email inviate di notte cariche di rabbia, discussioni infinite, allo stesso tempo la possibilità di rivedere i genitori, provare un senso di pena per la loro anzianità e trovare irritazione e repulsione nel loro trincerarsi e usare come scudo la fragilità del tempo; Bergljot capisce che dietro quella lettera in cui lei e suo fratello vengono esclusi dall’eredità delle case di Hvaler si nasconde molto di più, «adesso me ne ero staccata? Oppure ero ancora lì e mi ero soltanto limitata a cambiare più o meno i segni del racconto?».

L’assenza giocata sull’apparenza

La “cosa” accaduta tanti anni addietro è pronta ad esplodere: «mi resi conto – pensai in seguito, da quando avevo cominciato a pensare – che si stava avvicinando il momento dell’ammissione, che il terremoto era imminente, lo avvertivo come fanno gli animali. Tremavo al pensiero di quell’attimo doloroso di verità che mi avrebbe stravolto e squassato, forse lavoravo inconsciamente per accelerarne l’avvento, per affrontarlo e superarlo, vista la sua ineluttabilità». L’assenza giocata sull’apparenza. Quando suo padre, poi, muore di lì a poco, anche quell’evento getta Bergljot in un profondo smarrimento, «quando muoiono le persone per cui abbiamo conformato la nostra esistenza allo scopo di compiacerle e ricevere il loro consenso, non avvertiamo forse un vuoto improvviso? Quando muoiono le persone da cui, in maniera consapevole o meno, desideravamo essere accolti e accettati, non scopriamo forse che le scelte piccole e grandi che abbiamo fatto per essere accolti e accettati da quelle persone hanno contribuito ad allontanarne altre?». In fondo lei aveva rotto con la sua famiglia. È come se temesse allo stesso tempo di continuare a vivere con un passato che pesa come un macigno, che ha condannato la sua vita, pur lasciandole lo spazio per formare una famiglia, veder crescere i figli, ma avere relazioni turbolente; e vivere sprofondata nei ricordi senza via d’uscita. È suo padre a popolare i suoi incubi, a condannare i suoi ricordi: «Mio padre era così felice di abitare in Bråteveien. Mio padre era così felice di trasferirsi da Skaus vei in Bråteveien. Questo valeva anche per mia madre. Una volta dichiarò di non essersi mai pentita di avere traslocato, non aveva sentito la mancanza di Skaus vei neanche per un attimo. Nulla di strano. Chi vorrebbe vivere nel luogo del crimine?».

L’infanzia senza voce

La divisione famigliare pesa, le sorelle Astrid e Åsa da un lato e Bergljot e Bård dall’altro, trattati in modo impari, come se da quelle iniziali A e B dipendesse una vera graduatoria sociale: «ma di chi era la colpa – fa chiedere Hjorth alla donna nel romanzo – se io e Bård non eravamo presenti, non eravamo premurosi, vicini, affettuosi? Era perché non lo eravamo come persone? Eravamo di natura freddi, meno servizievoli e affettuosi, oppure la nostra freddezza era dovuta al comportamento dei nostri genitori? Perché due figli su quattro erano freddi, poco simpatici, mentre gli altri due erano affettuosi, premurosi? Era forse il risultato di questa ampia mescolanza di geni, come aveva citato Åsa nel discorso durante il funerale? Oppure si trattava d’altro?». Qual è l’eredità in questione? Sono davvero le case al mare? I soldi di una quotazione al ribasso ingiustamente periziata dall’avvocato? Oppure l’eredità è ciò che un genitore ti lascia in custodia, indipendentemente da ciò che sarai in grado di fare nella vita, un’impronta violenta, mordace e insensibile che supererà sempre tutto il tempo andato, che ti tornerà in mente, con tutta probabilità, nei momenti meno opportuni? Sarà un lascito che non potrai impegnare, rivendere, liberartene senza aver prima fatto i conti con un’esistenza che non ammette confronti? «Seduta sul fiume, con indosso l’enorme parka di Lars, stavo leggendo le poesie di Rolf Jacobsen, quando ero arrivata a questa: Di colpo. A dicembre. Sono con la neve fino al ginocchio. Parlo con te e non ricevo risposta. Rimani in silenzio. Amore mio, allora è successo». È successo Bergljot, per davvero, e sai anche quanto “l’aspetto emotivo” torni, quando per un tempo incalcolabile la nostra infanzia sia rimasta senza voce.

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