L’ottobre di Ercole Patti è un canto della sirena…

Il decimo mese dell’anno è protagonista in due titoli di Ercole Patti, “Giovannino” e “La cugina”, romanzi che intercettano la quiete di ottobre, dove ogni cosa è un’attesa, il luminoso fulgente autunno siciliano e non solo…

I mesi autunnali sono placidi eppure vertiginosi. Settembre è limpido, promettente, aereo. Inizia con i migliori auspici, tra nostalgia e speranza. Gli ultimi giorni virano già ai caldi colori dell’autunno, al sopore, e nel frattempo sono apparsi, dopo le prime piogge, i ciclamini selvatici nei versanti esposti a settentrione, le starnbergie gialle, la mandragora dai fiori viola. 

Ottobre è il mese della quiete dove ogni cosa è un’attesa. Ecco. Fermiamoci qui, vi prego, ad ottobre. 

«Era una sera degli ultimi di ottobre del 1921 a Catania… Le vetrine delle dolcerie erano piene della frutta di marzapane colorato fitto e pesante e biancheggiavano di ossa di morto…». Sono le prime frasi di Giovannino, il romanzo del 1954 di Ercole Patti.

Tutte le opere etnee di Ercole Patti contengono, probabilmente, le descrizioni più puntuali e al contempo oniriche dell’autunno siciliano. Sono due, soprattutto, i titoli dove il vecchio ottobre è protagonista: Giovannino e La cugina (oggi in Tutte le opere, La Nave di Teseo, ne abbiamo scritto qui e qui).

La vita, una vana testimonianza

Il primo, Giovannino, è un’opera spesso sottovalutata, che sin dal titolo sembra troppo debitrice a Brancati. Eppure in Giovannino c’è la grazia di una narrazione fluente, viva. Il protagonista, inane pur nel suo giovanile vitalismo, pare in effetti un personaggio brancatiano preso in prestito. È pur vero che Patti ha un passo meno graffiante, forse rassegnato, forse mistico, forse amaramente realista. Forse… E infatti non riesce a ripudiare, o peggio condannare, un personaggio che, dopo una giovinezza di imprese erotiche, si sposa per convenienza sognando la dote, gli agrumeti, le antiche dimore, le corse in Bugatti sui tornanti dell’Etna, ma che finisce la sua avventura tra le vendemmie e le cicorie in umido, dentro vecchie case di arcaici paesi di montagna. Dissipare sé stessi diventa, qui, una sorta di serena espiazione, ché la vita è troppo bella per l’essere umano: si può accarezzarla, abbracciarla fuggente tra i castagni d’autunno, nei vigneti, nei boschi che sfumano al rosso, ma bisogna dare un tributo per questa dolcezza, sperperando quindi sé stessi. Come se, in una visione ciclica dell’universo, l’infinita bellezza della vita non lasciasse spazio alla nostra di vita, destinata per questo a fare da spettatrice estatica e immobile. Una vana testimonianza.

Amori terreni e amore trascendente

Lo stesso sprazzo di eternità che la natura autunnale regala a Giovannino balena nell’altro romanzo d’ottobre di Ercole Patti, La cugina, del 1965. Qui troviamo il Patti più noto, sensualissimo. È la storia di Enzo Toscano, della sua vita sempre uguale, alimentata dalle rendite di famiglia, attraversata da un unico amore, ricambiato, per la cugina Agata. Forse amore non è il termine esatto. In verità è un sentimento vuoto, opportunista, distaccato, ma è pur sempre il suo unico amore terreno. Sì, perché Enzo coltiva in realtà un altro vero amore, trascendente, per lo splendore dell’autunno siciliano, luminoso, fulgente. Il sole che allo spasimo del tramonto accarezza di rosa i muretti a secco che cingono le querce e i vigneti, giunge direttamente dalla remota dimora degli dei. Ci conduce ad una vita pura e solitaria. Poco importa che Enzo conduca un’esistenza fatta di incontri erotici e perturbanti ora con la cugina sposata ora con le massaie anch’esse maritate. È necessario allontanarsi dalla virtù per riscoprirla, lo sappiamo bene tutti. 

L’ottobre di Ercole Patti è un canto della sirena, la lontananza pur benigna del cielo, la prossimità della terra. C’è uno sguardo morale su questi personaggi amorali? Forse, forse. Tutto in Patti resta sempre poco definito, in dubbio. Tranne la netta luce di un sole morente.

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