Laura Forti e la famiglia, la felicità dà pace o destabilizza?

Un romanzo di grandi domande, “Una casa in fiamme” di Laura Forti, che s’immerge in una famiglia di oggi, in un arco temporale che va da un’estate all’altra. La malattia della madre innesca cambiamenti e passaggi importanti per ogni componente, dal marito ai figli, e un confronto vivo con le origini ebraiche della coppia. Un romanzo che non vuole insegnare o spiegare nulla, ma chiede un cambio di prospettiva…

Dove eravamo rimasti? Nemmeno un anno fa Palermo aveva incoronato Laura Forti, drammaturga di fama internazionale, con il Super Mondello e il Mondello Giovani per il suo romanzo autobiografico Forse mio padre (ne abbiamo scritto qui), edito da Giuntina. Premi meritatissimi per quello che non era il suo primo approccio alla narrativa, sempre per la casa editrice fiorentina, in precedenza, era stato pubblicato L’acrobata (ne abbiamo scritto qui), che aveva le radici in un preesistente testo teatrale. Erano due spaccati di vita personale e familiare, da cui Laura Forti adesso si allontana. Si è presa del tempo per altro, l’autrice, che ha anche cambiato editore per approdare ancora in libreria. Stavolta è Guanda a pubblicare un romanzo tout court, in cui se ci sono tracce personali sono molto ben diluite nel plot. Con Una casa in fiamme (288 pagine, 17 euro), Laura Forti fa un passo avanti, con un romanzo familiare – ma vi risparmieremo la trita e rimasticata frase di Tolstoj – di grande impatto. Legami forti e dinamiche intense, evocati con una scrittura sapiente, fanno il paio con uno sguardo che è al tempo stesso lucido e ironico. Grande forza di un romanzo, che ha bisogno di alcune decine di pagine per carburare, ma poi decolla e non molla chi si affida alle sue pagine.

Il dolore e la fragilità? Benedetti

Il dolore, la crisi, la fragilità, le ombre sono benedetti. Consentono i primi passi del cambiamento in seno al nucleo familiare composto dalla protagonista Manuela, scrittrice dalla vena inaridita che fa i conti con una diagnosi di tumore al seno (e con un sogno ricorrente che dà il titolo al romanzo), dal marito Sergio, dall’infanzia traumatica, ingegnere a caccia d’evasione, dalla figlia adolescente Lea (sincera, impetuosa, in cerca di un’identità) e dal figlio minore Elias (il figlio che ha insegnato la tenerezza alla madre, nato dopo un fratellino mai nato, l’Evento che Manuela non aveva superato mai davvero), e in qualche modo anche dal gatto di casa, Belle Epoque, morto misteriosamente e tragicamente. Nella malattia, nel periodo delle cure, Manuela scopre la solitudine, lontana da ogni componente della sua famiglia, si sono scavati solchi fra loro, sono diventati estranei, non riconosce più marito e figli per quel che erano o le sembravano. Ma non è detto che tutto ciò sia un male. La strada è indicata già nelle primissime pagine.

Ho capito che non esistono assoluti.

Che bisogna essere disposti a lasciare per andare avanti.

Che quello che si può annodare si può anche sciogliere.

L’eredità dell’ebraismo

Marito e moglie fanno inoltre sono alle prese con l’eredità spirituale, culturale e sociale dell’ebraismo (entrambi sono figli di matrimoni misti), che è soprattutto una ricerca di identità e di senso, oltre al macigno delle persecuzioni degli antenati, come i genitori vissuti negli anni del fascismo. Sergio intende la “relazione” con l’ebraismo in modo più ortodosso e forse più “superficiale”, fra riti, feste e obblighi alimentari. Per la moglie è una faccenda più complessa. Come le conclusioni a cui la quarantacinquenne Manuela approda strada facendo sulla preziosità dell’esistenza, al di là di ostacoli, peripezie e ferite. Anche quando è feroce e incomprensibile, specie con le sue verità nascoste, con limiti e fragilità, la vita emerge su tutto e prepara ai cambiamenti, ai passaggi decisivi.

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Da un’estate all’altra va avanti la narrazione. Quando la primavera sembra portare una soluzione risolutiva nel cuore di una famiglia a soqquadro, è lì che dubbi e rovelli si accatastano ancora di più fra i pensieri di Manuela, voce narrante.

Ma chi sceglie la nostra direzione? Siamo già programmati fin dall’infanzia, incasellati in un destino stabilito o è possibile scendere dal nastro e cambiare? Esiste una felicità? Coincide con l’imprevisto, con una scossa che ci spiazza e ci sorprende? Felicità è quello che dà pace o che destabilizza?

Sono tante le domande che Una casa in fiamme riserva al lettore, a cui si chiede un cambio di prospettiva, come alle figure che prendono vita fra le pagine. Ed è un’ottima notizia, la letteratura che vuol spiegarci la vita non la apprezziamo fino in fondo. Preferiamo imparare da soli, partendo da dubbi instillati, sbagliando, rialzandoci, tornando indietro. Vivendo in modo consapevole emozioni, sfide, contraddizioni, incendi. Laura Forti compie per la terza volta un miracolo letterario. E non ci stupiremmo, prossimamente, di imbatterci in un quarto.

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