Ridare vita alla madre, il luminoso tentativo di Calandrone

Dopo “Splendi come vita”, dedicato all’amore difficile con la madre adottiva, Maria Grazia Calandrone conclude un dittico materno, mai melenso ma struggente, con “Dove non mi hai portata”, che ricostruisce la vita della madre naturale, Lucia, che abbandonò la figlioletta prima di suicidarsi col padre della piccola. Un racconto crudo e dolce, in cui la figlia prova a restituire vita alla madre

Gli dei della letteratura hanno ancora a cuore i lettori che si portano dietro ovunque i libri e magari ci vanno anche a letto; quelli che hanno bisogno di essere colpiti alla gola, al petto e al cervello da una lettura che resta addosso. Una delle gocce purissime d’ambrosia, scivolata dal banchetto degli dei, è opera di Maria Grazia Calandrone, poetessa che, scoperto il gusto della prosa (sebbene intarsiata di versi, soccorsa anche da quelli di noti poeti e, in generale, dotata di uno sguardo poetico e di un ritmo musicale), non sembra intenzionata a mollarla. Nel 2021 era stata semifinalista alla Strega con Splendi come vita (Ponte alle Grazie), scritto in un paio di settimane, e, adesso, con Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca (256 pagine, 19,50), concluso in circa un mese e mezzo, pubblicato dalla casa editrice Einaudi, chiude un cerchio, concludendo un dolorosissimo e catartico dittico materno.

Due madri

Calandrone ha attraversato a cuore aperto, con parole e sentimenti vivi, due maternità, diversissime, una reale, una potenziale, giudicate con pari dignità. Se le è caricate addosso. In Splendi come vita le pagine ardevano del rapporto complesso e compromesso con la madre adottiva, Consolazione, in questo secondo libro l’autrice indaga vita e morte della madre naturale, Lucia Galante. Una sfida, forse, più difficile: dare pensieri e contorno, anima e corpo a una donna, di fatto, mai conosciuta, ricercata, ricostruita attraverso testimonianze e ricerche d’archivio. Qualcosa di simile, in anni recenti, ha provato a farlo solo Laura Forti in Forse mio padre per Giuntina (qui l’articolo). Come in quel caso l’esito è altissimo e colloca Maria Grazia Calandrone fra i nomi di maggiore valore e sensibilità della narrativa italiana attuale. Ci voleva una poetessa – come c’è voluto un poeta, Daniele Mencarelli – per dare una bella scrollata alle pareti fatiscenti di questa stanza…

Atto d’amore

L’amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nel non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti.

Questo atto d’amore – mai melenso ma struggente sì – che è Dove non mi hai portata dona nuova vita e pace vera a Lucia, madre biologica della scrittrice; contadina, originaria del Molise, un’esistenza funestata da nozze combinate con Luigi detto Centolire («lo sciaccò, il buffone del paese»), sette anni di matrimonio non consumato, con maltrattamenti fisici e psicologici da parte di un marito violento e incapace di amarla, la morte trovata volontariamente, assieme a Giuseppe Di Pietro, il padre della piccola Maria Grazia (muratore, dilaniato dall’esperienza in guerra, dalla campagna in Africa, dalla probabile partecipazione alle due battaglie di El Alamein), entrambi affondati nelle acque del Tevere, dopo aver lasciato la figlioletta, che non aveva nemmeno un anno, su un prato di Villa Borghese, non sui gradini di una chiesa o davanti alla porta di un convento; in qualche modo una scelta di libertà e di coraggio, una morte per amore, preceduta da una lettera al quotidiano L’Unità: un modo per creare un certo clamore mediatico attorno alla piccola e darle magari la possibilità di trovare la propria strada in seno a una nuova famiglia laica (sebbene Lucia fosse molto religiosa).

Vittima del patriarcato

Va in scena una sorta di femminicidio ante-litteram, suicidio indotto da circostanze che sembrano antidiluviane ma erano normalissime a metà degli anni Sessanta in Italia, quando ancora non c’era spazio per il divorzio, quando essere vessate e braccate era nell’ordine delle cose: la fine di Lucia sembra segnata da sempre. Ha lasciato il marito, l’ha tradito, le leggi dell’epoca sarebbero state inflessibili (e paradossalmente molto più clementi, quando erano gli uomini a tradire…) nella condanna di un’adultera, un’adultera che era solo l’ennesima vittima del patriarcato.

Nel 1964 Lucia e il coimputato amante Giuseppe son infatti due ricercati. La pena è due anni di galera, deterrente che vorrebbe arginare piena di un amore che si è già tradotto nella costituzione di una nuova vita, con diritti naturali equivalenti. Come stringere chiunque nella vita che non vuole più vivere, come obbligarlo alla convivenza in un disamore coniugale, ormai naturalmente concresciuto dal tradimento in delusione e ferocia? […] vorrebbe solo vivere una vita voluta, solo vivere in pace quel tratto di tempo corporale che pertiene alla fisica e chiamiamo vita. Nonostante il fascismo naturale che la investe in pieno viso.

Non un’astrazione, non un personaggio

L’indagine da cronista e da letterata che compie Maria Grazia Calandrone, alla ricerca dell’amore perduto della madre naturale, è carica di perdono e compassione. Il modo in cui racconta l’autrice di Dove non mi hai portata quasi svuota di significato queste parole.

Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me.

Calandrone è tornata nei luoghi d’origine della madre, in Molise, in quelli che ha attraversato, Milano e Roma, li ha interrogati, come le persone, ha raccolto testimonianze amarissime e dolcissime per cucire assieme un sentimento per una persona gradualmente amata, non più un’astrazione, non un semplice personaggio, ma una madre, «una figura tridimensionale, eretta nella storia del suo tempo. Una figura con la faccia pulita». Costretta a un matrimonio combinato, ma ribelle, non rassegnata alla vita che altri avevano deciso per lei, libera (per certi versi come Consolazione, la madre adottiva dell’autrice) Lucia riuscirà a fuggire («contro la dittatura della normalità, contro il comune bisogno di espellere il perturbante, il disordine, tutto ciò che si scosta dal sordo imperio della maggioranza»), andando però di corsa verso l’impossibilità di un futuro (quello che invece è riuscita a donare alla figlia) e un epilogo straziante.

Contro il buio di un’Italia arretrata

Inchiesta familiare, poemetto di cronaca lirica, ma anche volume che racconta la storia italiana, quella di desolati decenni incrostati di arretratezza, pregiudizi, sottomissione della donna, oscurantismo, di leggi che oggi non sarebbero semplicemente anacronistiche ma inconcepibili. L’Italia di questo racconto è immersa nella seconda metà del secolo scorso, ma per molti versi sembra rimandare ancora al pieno Ottocento, o anche prima. A questo immenso buio si contrappone la luce di un tentativo – duro, crudo, dolce, commovente – quello di ricostruire una memoria, di restituire una vita. Come se la figlia Maria Grazia si trasformasse in qualche modo nella madre.

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