Una nuova lingua spagnola e mille mondi in uno, se… dici Perù

Sedici autori peruviani, ognuno con un contributo, danno vita a “Lejos”, non una semplice raccolta di racconti sul Perù e sul mondo andino, rievocato da vicino o da lontano, ma un originale corpus narrativo, con nuovi adattamenti linguistici e il ritmo di uno spagnolo via via adeguatosi alla distanza dalla sua origine, che già origine non era…

Accade talvolta che la letteratura, quella che ti capita tra le mani nel migliore dei modi – e cioè per puro caso, senza che tu sia andato a cercarla, senza che mai ne abbia sentito parlare – e che nel migliore dei modi ti trovi a leggere, si trasformi pagina dopo pagina non appena tu ne abbia colto l’intima sostanza: un’essenza che, ben oltre il mero fine letterario, diventa espressione di puro umanesimo.

Il pane amaro

Sì, perché se l’uomo rischia di disumanizzarsi, è perché sta perdendo l’umanesimo prima ancora che la propria umanità: la ricerca di sé stesso prima che la ricerca del suo proprio senso. E allora certi libri, come le briciole di Pollicino, ti riconducono a casa; senza il rischio d’essere divorate dagli uccelli, perché un certo sapore di pane non vuole proprio assaggiarlo nessuno: è il pane amaro di chi è lontano da casa, di chi, della propria casa, ricorda tutto o nulla vorrebbe ricordare; è il pane amaro di chi si trova ad essere abitante di quella casa anche se ormai distante, di chi vorrebbe tornarci e non può; di chi potrebbe e non vuole. Ritentare la strada verso casa, in una maniera o nell’altra, attraverso il ricordo o il rimpianto, il rancore o il perdono, è comunque una conquista di umanesimo: un ritorno alla propria intima umanità.

E di questo è fatto Lejos (Gran Via Editore, 287 pagine, 16 euro), antologia di racconti che da lontano – proprio questo lejos significa – danno l’amaro sapore di un Perù che però, a dispetto del titolo, risuona in modo presentissimo nelle parole e nei sentimenti di chi ne parla, di chi è costretto a parlarne, e di chi vorrebbe soprattutto che le parole diventassero passi di un qualche ritorno.

Racconti non necessariamente peruviani, dunque, perché scritti magari da chi quella terra non la possiede più. Ma ne rimane posseduto, come è capitato a me che in Perù ci sono già stato due volte, e avrei volentieri scritto un diciassettesimo racconto (o anche solo una poesia) su quella terra drammatica e meravigliosa, un racconto che forse è già l’insieme delle parole che sto scegliendo perché i sedici racconti di questo libro possano passare dalle sue pagine ad altri occhi.

La curatela

I primi occhi, i primi a leggerli e ad assaporarli, sono quelli di Maria Cristina Secci, di cui abbiamo già parlato su LuciaLibri (qui abbiamo scritto di un’antologia di racconti di autori cileni, raccolta che ha curato), di lei e della sua voglia di raccogliere, di trovare, di inventare contesti di sintesi narrativa che, però, non hanno come fine quello di chiudere e concludere discorsi, ma di aprirli, di accendere curiosità e novità su culture che, in una maniera come nell’altra, sono meno distanti da noi di quanto ci si aspetti: la sua introduzione all’inizio del libro è ben più che una descrizione o un indirizzo di lettura; diventa ed è un atto di profondo rispetto, un sipario che, prima di spalancarsi, condivide con ogni lettore uno spazio di responsabilità interpretativa sull’uso della lingua, sull’affetto e sulla tenerezza come necessarie ragioni di una traduzione, sulla semantica dei linguaggi. I libri oggi, ancor più che le navi un tempo, attraversano spazi e oceani per raggiungere chiunque, per portare ciascuno di noi da una parte all’altra della Terra e, così, contribuire a creare una cultura universale senza che quelle particolari ne abbiano a patire il benché minimo impoverimento; senza che si generi massa indifferenziata di umanità senza umanesimi propri, maturati sotto il loro sole, proprio come il mais.

Maria Cristina è docente di Linguistica, di Letteratura, di Filologia. È troppo meravigliosamente sporca di quel fenomeno così abituale e abitudinario, che chiamiamo lingua, per non lasciare macchie da tutte le parti! Aloni di tradizione, di remote memorie, di sentimenti e ricordi che sono diventati linguaggi e che comunicano in mille modi diversi. Maria Cristina sa che, dietro ogni lingua, c’è un popolo, e dietro ogni lontananza una storia, un’esperienza, un modo diverso di vedere e di intendere il mondo. E così raggruppa sfumature di colore che diventano copertine, riconsegnandoci – un’antologia alla volta – un intero iride di mondi. Alcuni di questi poi, proprio come il Perù, sono già così variegati e policromatici che davvero, anche se i racconti fossero stati cento e più, il sentore di questa terra lontana sarebbe risultato inesauribile.

Via senza passaporto

La sierra, con le sue alturas sorvolate dai condor, coi suoi villaggi che releghiamo in un concettuale quanto comodissimo sud del mondo, ma che stanno così in alto da vedere il sole come nessuno e riconoscerne l’antichissima e incontrastata divinità; la selva, fitta di vegetazione come di misteri, cuore verde del mondo, origine e principio di una parte di Amazzonia precipitata dalle Ande sul letto del fiume Urubamba; la costa, che si affaccia sul Pacifico come su di un orizzonte nuovo, adatto tanto a fuggire quanto ad accogliere: peruanos che partono e giapponesi che arrivano e ci diventano, mentre la costa osserva questo viavai con l’occhio avventuroso e ricco di Lima e con quello spaventato e povero di Manchay.

Mille mondi in uno; un solo mondo in sedici racconti che fuggono via senza bisogno di passaporto, con il solo visto d’una pagina.

Quanto saranno profonde le radici di quegli alberi?, è la domanda che, tra tante altre, viene fuori dal primo racconto (Tutto quel che ho lo porto con me, di Katya Adaui): una sintesi ed una prolessi, un quesito vestito da pensiero tangente che, però, centra e taglia l’anima di tutto un testo; una domanda sulle origini, sul passato, sulla responsabilità del ricordo. Una domanda a cui spesso, chi dal Perù si è allontanato, non vuole rispondere: da quale parte del Perù vengo, da quanto tempo sono qui, di cosa mi occupo… (Una foto con Rocky Balboa, di Francisco Ángeles). E siamo già al secondo racconto, che sembra fare da contrappunto al primo. Ma sarà così per ogni storia, e senza che gli autori lo abbiano voluto. Miracolo di un’inconsapevole sinossi che, nascendo da un’unica anima, rintraccia sé stessa in continui richiami di senso, anche quando registra i sentimenti di chi ha contratto il male della solitudine (L’antica arte della falconeria, di Paul Baudry) e con ogni possibilità cerca di restaurare il passato di chi ama, ricreandogli una vita che in realtà avrebbe meritato (Faraglioni, di María José Caro).

L’insolito

Mi sono ritrovato in certe espressioni piene di stupore, come quando anch’io – nel folto bosco d’una baraccopoli – indicando il cielo, dissi a chi era vicino a me: Quella è la Croce del Sud! (Morte improvvisa, Jack Martínes Arias), scoprendo una meraviglia invisibile nei nostri cieli e dunque rarissima ai nostri occhi così abituati al movimento di un Carro che trascina con sé la supponenza dell’Occidente; come rarissimo ai nostri palati è il tonno in salsa di aguaymanto, assaggiato a Lima, solo una volta, e riassaggiato nel sesto racconto di questa antologia (Acquario, di Susanne Noltenius). Ma si assaggia anche, tra un racconto e l’altro, l’insolito retrogusto di artifici narrativi inaspettati, come quando un’apparente parentesi di fantascienza cela il dramma di una storia tutt’altro che fantastica e terribilmente amara come una forzata dimenticanza, una storia che ben pochi conoscono (Costellazione nostalgia, di Juan Manuel Robles). Ma anche la storia più piccola del libro, l’ottavo racconto, una pagina e mezzo, schiude spazi enormi quanto un’anima: geniale come in poche righe, in pochi sguardi abbandonati oltre i confini di uno sperduto villaggio, l’autore riesca a regalarci tanta ampiezza in quello che egli descrive come il paesaggio più strano del monto (La selva, di Santiago Roncagliolo): è un immenso paesaggio interiore di cui la selva peruviana diviene paradigma. Immenso come l’oceano dove quelle onde così grandi possono inghiottirti (Quelle onde, di Claudia Salazar Jiménez) e dove, tuttavia, volli fare il bagno rimanendo incastrato nel meccanismo di una risacca che tanto somiglia alla struttura di questo racconto, dove tutto viene risucchiato dal rimpianto e poi risputato fuori dalla speranza. E speranza è anche quando scegli di scrivere di ciò di cui mai vorresti parlare, e scegli di usare anche una frase che, in un racconto così drammatico, della speranza diventa davvero una vittoria inattesa: Se qualche volta ti è capitato di contare i petali di un fiore, avrai notato qualcosa d’insolito (Herford, di Gunter Silva Passuni), e l’insolito è proprio la collocazione di questa poetica. Mentre insolita non è affatto la tenebra in cui si precipita con il racconto successivo, che davvero taglia la realtà consegnandoci una delle più profonde ferite della storia peruviana: la ferita che non smetteva di sanguinare (La morte aveva le nostre dita, di Jennifer Thorndike); una storia ancora recente, tutt’altro che lontana, diversissima dal titolo di questa antologia anche se sostanzialmente vicina alla nostra distanza morale da quegli eventi, che sconosciamo finché non li incontriamo nello sgomento di queste pagine. Poi quasi un risciacquo, una rimescolata di correnti emotive che cambiano la scena, che ci risvegliano dall’incubo del bisturi per darci al torpore quasi onirico dell’ossessione adolescenziale: C’è un non so che di rozzo e allo stesso tempo incantevole nel sentirsi intorpidito ed euforico (Non ho mai saputo come odiarla, di Diego Trelles Paz); e poi, finalmente, ci si riprende insieme alla protagonista del tredicesimo racconto, aspettando di volare insieme a lei dopo esserle rimasti in tasca per qualche pagina che sa già di romanzo, tanto forte è l’impatto delle descrizioni; portiamo ancora le ferite degli altri racconti addosso, ma siamo sopravvissuti grazie alla sua gentilezza, e la vita è un programma non ancora finito, non ancora destinato a trasformarsi in un gerundio di pulsazioni, respirazioni, movimenti che in un attimo diventano per sempre dei passati remoti (Uccellino, di Claudia Ulloa Donoso).

I colori dell’introspezione

E già che il Perù ha già attraversato l’Atlantico ed è finito in Nord Europa, ecco che dalla Norvegia ci spostiamo in Scozia, dove pure si vive la fantasia in totale naturalezza e c’è sempre spazio per l’impossibile (Un viaggio al Great Glen, di Nataly Villena Vega), come impossibili sono certe relazioni, certe storie precluse dallo stallo di misteriosi ingranaggi interiori che, se da un lato rimangono inspiegabili, dall’altro si disvelano nella tavolozza di un racconto ben fatto. Con quello successivo, dove i colori dell’introspezione si fanno più intensi, si risprofonda nell’inquieto tormento di nuove ragioni di vita: la vergogna, questo fuoco. Anch’essa è una buona ragione. E, più di ogni altra cosa al mondo, lo è la passione per l’oblio (Dobsonfly, di Gabriela Wiener); e con l’ultimo si ricrea l’equilibrio che permette, infine, di poter tracciare un diagramma di tutte le narrazioni; sembra che l’ultimo racconto, quasi senza volerlo, confermi le intenzioni di tutti i precedenti: Questa volta non mento quando dico di sì (Seltz, di Carlo Yushimito).

Lo fa ancora meglio Riccardo Badini – collega della Curatrice di questa antologia – che, alla fine di queste sedici storie, compone la sua descrizione come se fosse anch’essa un racconto, come se ogni parola sulle storie narrate da altri fosse destinata a diventare storia essa stessa: ciò permette ad ogni lettore di sperare altrettanto, di farsi strascico attivo di pensiero oltre il pensiero narrato.

Un’inconsueta costellazione

L’opera, per chi alla fine deciderà di considerarla solo come un insieme di racconti, altro non sarà che questo. Ma chi vi leggerà dentro, disciolta come l’ossigeno, l’intenzione di farla respirare oltre il confine della pagina, vi troverà senz’altro non solo lo sfondo di umanesimi e umanità di cui parlavamo all’inizio ma anche, e forse soprattutto, il meritorio sforzo linguistico di aver affrontato, nei diversi racconti, la fatica di traduzioni che – di volta in volta – hanno dovuto tenere il ritmo di uno spagnolo via via adeguatosi alla distanza dalla sua origine, che già origine non era. Esistono spazi che creano nuovi adattamenti linguistici, e la lingua stessa – organismo vivente – registra le sue mutazioni anche a partire dalla sensibilità di chi, emigrato in terra straniera (quasi tutti gli autori dei racconti si trovano in terra straniera), fa di questa lontananza un nuovo linguaggio.

È uno spagnolo lontano, lontano dalla sua terra, dalle sue terre, ma vicinissimo alle esigenze espressive di chi, scrivendo in questa lingua e affidandosi alla traduzione di chi deve decodificarla, si affida necessariamente all’ermeneutica di uno sguardo che non può limitarsi alla parola, da deve ricercarne il senso profondo oltre il velo del puro concetto.

La fatica e la bellezza sono le stesse di chi, contemplando nel cielo un’inconsueta costellazione, si sforza di coglierne un preciso significato. E se non c’è, questa stessa ricerca diventa il significato.

Desde Lejos

Croce del Sud, che di lontano

mostri l’opposta direzion dell’Orsa,

perché ne’ nostri cieli

non compari,

perché t’ascondi ad occhi ignari?

 

Eppur, come l’altra, la mano

tendi precisamente; la tua corsa

segue cammini che c’appaion rari

nei nostri cieli, a noi sì cari.

 

Pur troppo adusi al settentrione,

al settenario carro

che s’avanza

sbilenco, al braccio

la polare ancella,

giammai rimiriamo altra stella…

 

Così, ci sfugge la ragione

della tua luce arcana.

E la distanza

della tua forma ci nasconde quella

che certo è la Luce più bella!

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