Area 22. Chaim Grade e l’amore che ci mette in moto…

Esistono catene peggiori di quelle che ciascuno può incastrare ai propri polsi? E non è forse l’anima di ciascuno di noi una sposa destinata ad essere felice? Le risposte le scrive un maestro della letteratura yiddish, Chaim Grade, ne “La sposa incatenata”, storia della bella Merl, “prigioniera” del suo primo matrimonio, in una Vilna ebraica… Nuova puntata di Area 22, rubrica dedicata alla letteratura e alla cultura ebraica (qui tutte le puntate precedenti)

È una storia di insistenza quella che presentiamo oggi. Un’insistenza pantadiegetica, capace di coinvolgere la vita di un autore come quella dei suoi personaggi; capace di farci sbattere ancora contro pareti di apparente illusione letteraria che, in realtà, mostrano una ben più incalzante verità celata dietro (e dentro) le pieghe di storie altrimenti invisibili, sinché non raccontate. Perché, entro certi limiti, è la narrazione a permettere l’esistenza; è la parola narrata, anche solo in un sussurro, a permettere che vite intere possano esistere. Ed è in questo esistere che noi siamo: è in questa esistenza che… insistiamo. Lo facciamo con La sposa incatenata (387 pagine, 20 euro) di Chaim Grade, traduzione dallo yiddish di Anna Linda Callow, Franco Bezza e Haim Burstin, romanzo pubblicato da Giuntina.

In-sistenza

È un concetto preciso. Prima ancora è una parola, che affonda le proprie radici in radici antichissime, pre-greche, pre-romanze, pre-qualunque cosa noi si possa oggi indicare attraverso una qualunque forma di prossimità. Un mondo indoeuropeo, sepolto da strati plurimillenari di parole che, passandosi la staffetta del senso, ci hanno permesso di rimanere strettamente legati ad un’origine ancestrale cui rimane ancora oggi incollato il nostro profondo e imperscrutabile desiderio di logos, come principio primo di autocomprensione. Un’antica radice, -STA, seminata e disseminata in migliaia di suoni che sembrano caduti sull’Occidente dal tetto di una Babele antichissima. E in questo passaggio di staffetta tra l’antica ortogenesi linguistica di Iaphet, e il passaggio a suo fratello Sem, i cui discendenti sono i protagonisti di questo libro, troviamo l’anima di questa radice che indica l’essere come vita, come individualità cosciente, un esserci come collocazione nello spazio e nel tempo; questa radice, che troviamo come esistenza e come insistenza, come l’esserci a partire “da” qualcosa, e come l’essere “in” qualcosa. In Qualcuno, per meglio dire.

Nel nostro caso, l’esistenza di questi personaggi letterari (Itsik, Merl, Kalman, Reb David), è figlia di un’insistenza, quella di Chaim Grade, che qualcuno ha accusato di non essersi mai separato né dallo yiddish né dalla sua russa Vilna (la cosiddetta Gerusalemme del Nord). Un’accusa contro la sua insistenza culturale, geografica, tematica e letteraria. Un’insistenza che, per lui, semplicemente, è esistenza, resistenza. E poiché le creature partecipano dell’immagine e somiglianza del loro creatore, ecco che i personaggi principali del libro insistono a cascata, come in un processo genetico naturale tra chi ha scritto e chi la scrittura l’ha ricevuta in dono come atto di creazione. L’ideale sarebbe che il lettore, termine ultimo di queste insistenze, insistesse a propria volta cercando un ambito in cui riconoscersi come essere autonomo e inviolabile, capace di perseguire il proprio fine realizzativo: questo, mi sembra, lo scopo ultimo di questa meravigliosa pedagogia narrativa.

Il disumano come precetto

La storia, che si snoda tra i vicoli e i quartieri di una Vilna soggiogata da una cultura religiosa reazionaria, patisce tutte le derive di un’umanità che, per quanto orientata ad un’obbedienza esistenziale al Divino, risulta infine disumanizzata e corrotta da una disfunzione del precetto: una regola fatta per salvare ma che, denaturata da questa funzione salvifica, che non può prescindere il paradigma ineludibile dell’umano, diviene infine l’intreccio di quelle catene accusate dal titolo dell’opera. Un precetto che, pensato per tutelare la più sacra tra le sacralità di un intero popolo, quella nuziale, alla fine sembra voler salvare lo sposalizio sacrificando gli sposi: come a dire, una spirale impazzita di cause e di effetti in cui l’uomo finisce per diventare meno importante dello strumento che giova a salvarlo.

Agunà: l’ospite di un limbo a tempo indeterminato

Agunot è l’espressione con cui si indicano quelle donne rimaste sospese tra il loro matrimonio e la misteriosa scomparsa del loro marito. Merl, la nostra sposa, è incatenata da questa indeterminatezza devastante: il suo Itzik, probabilmente rimasto ucciso in guerra (il suo reggimento è stato sterminato) ma mai trovato, diviene il fantasma di un vincolo incontrovertibile. Poco importa che, a distanza di anni, nella vita di Merl sia giunto Kalman a ridarle la gioia di un sorriso innamorato, insieme al coraggio di voler cominciare con lei una vita nuova, ancora possibile da chi vecchio non è se non nell’ottica di un sistema deciso a far fuori chi, per un motivo o per l’altro, non risponde più ai parametri di una funzionalità sociale. E poiché un’agunà è sostanzialmente una vedova, ma senza il cadavere certo di uno sposo, essa risponde in modo duplice alle condizioni di una marginalità senza scampo: maledetta da Dio a un tempo, perché rimasta senza marito (e soprattutto senza la tomba di un marito) e impossibilitata a contrarre nuove nozze; dunque, irrimediabilmente costretta alla peggiore delle solitudini: quella sostenuta da un regime impazzito di regole che celebrano la dimenticanza assoluta del cuore. Eppure, è proprio dal regno dei morti che Kalman, imbianchino e cantore funebre, tenta attraverso lo slancio del suo amore un meraviglioso anticipo di ciò, nell’economia dell’intera storia, potrebbe somigliare in tutto e per tutto ad una Valle di Giosafat: molti dolori a spezzare le ossa, e un solo amore a rimetterle insieme.

La follia di un rabbino eterodosso

Il concetto di ortodossia può dare ambito ad equivoci semantici: ci si potrebbe riferire ad una particolare sensibilità confessionale dell’ebraismo più strettamente aderente alla Torah; oppure alla confessione cristiana legata alle chiese orientali dopo lo scisma del 1054; ancora, e senza sfumature religiose, la parola potrebbe far pensare – in generale – ad una struttura dottrinale solida. Insomma, tanti possibili significati. Ma il suo contrario, eterodossia, certamente meno usato, è anche molto più puntuale nel consegnarci un preciso significato. Eterodosso è chi non si allinea, per svariate ragioni, ad un preciso asse dogmatico o etico. Oggi quanto mai di moda, l’eterodossia è quasi divenuta il manifesto libertario di chi, magari senza neanche sapere perché, intanto si schiera contro, e poi si vede. Non certo una scoperta di oggi, però. Ciò che in tempi antichi era chiamata eresia, in tempi moderni è diventata libero pensiero, e nella contemporaneità ha assunto la forma di un sempre più politicamente corretto relativismo in cui tutti sono contenti e nessuno è felice.

Ma qui, in questo “qui” letterario, noi ci troviamo in una Vilna ancora fortemente legata alle tradizioni, alle istituzioni religiose che governano intere generazioni di coscienze. Non ci chiediamo quanto sia giusto o sbagliato, perché non è questo l’interrogativo del libro, che (almeno superficialmente) si limita alla descrizione della fenomenologia socio-religiosa. Ci chiediamo, semmai, e insieme al libro questa volta, quanto possa essere destabilizzante che, all’interno di un tale sistema, un certo Reb David scelga di muovere il motore di un’eterodossia grave, per quanto innocente. Su questo paradosso, l’innocenza di un’eterodossia, si impernia tutto il divenire di questa storia. E poiché ogni paradosso cela una certa interscambiabilità dei suoi termini, crediamo che qui, piuttosto, ci si possa chiedere fino a che punto l’innocenza stessa, quanto più decisa a difendere e proteggere, possa tanto più essere considerata una forma di eterodossia. L’innocenza, per il fatto stesso di mettere in crisi la colpevolezza di un sistema, appare eterodossa:

Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato. La nostra forza sia legge della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e chiama sé stesso figlio del Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. Siamo stati considerati da lui moneta falsa, e si tiene lontano dalle nostre vie come da cose impure. Proclama beata la sorte finale dei giusti e si vanta di avere Dio per padre. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. (Sap 2,10-17)

Un testo deuterocanonico (un altro modo per dire eterodosso), ma che descrive in maniera molto puntuale il destino dell’innocente. Nel nostro caso l’innocente è questo Reb David, un rabbino già accusato dalla sua comunità religiosa per aver indotto alla profanazione dello Shabbat (anche se per una causa umanitaria) e che ora, addirittura, sfida le convenzioni e le interpretazioni per far sì che la giovane Merl possa sposarsi. Il suo crimine? Aver interpretato una Torah fatta di carne, e di due occhi che piangono.

Qui non è scopo quello di raccontare come va a finire il libro (con l’amarezza che tante volte coincide con il finale sipario dei racconti di Chaim Grade ogni suo lettore ha già fatto i conti) né piluccare come molliche tutti gli snodi della storia e i titoli dei vari capitoli. Insomma, chi vuole se lo legga. Ma soffermarci, piuttosto, sul tema che – come in altri casi – appare particolarmente a cuore ad un autore così sensibile. Sembrerebbe che l’yiddish, che talvolta viene relegato al sottoinsieme delle minoranze linguistiche e culturali, qui sia invece una vera e propria griglia ermeneutica. Se ogni lingua esprime, nella sua più intima essenza comunicativa, la struttura di pensiero di chi la parla, allora Chaim Grade utilizza l’yiddish come un vero e proprio strumento capace di farci entrare ancor più all’interno del dramma, perché non vi è dramma che non si consumi in quel recesso di pensiero che, oltre le possibilità di una lingua nazionale, solo certe lingue cresciute per strada sono capaci di farci capire.

Naturalmente noi ci lasciamo bastare la tripletta dei traduttori che, come altrettanti tutores, si nascondono dietro le pagine della storia, e ci consegnano un italiano che ce la mette tutta – e lo si capisce molto bene – per consegnarci un’emotività testuale che possa riprodurre al meglio le sfumature drammatiche tessute da Chaim Grade con la grezza ma umanissima fibra del suo irrinunciabile Yiddish.

E(x)-sistenza 

Insisto ergo sum! Chaim Grade, come si è detto, insiste su Vilna, sullo yiddish, sui suoi temi, che per lui sono vitali. E la nostra Merl, il suo Kalman, e il rabbino David, insistono a loro volta per voler celebrare un matrimonio contro ogni speranza. È il segreto dell’esistenza, quello che ci spinge a capire che, se veniamo dall’Amore, l’amore è l’unica chiave capace di poterci mettere in moto verso noi stessi. Il marito scomparso, più che un ex nel senso moderno del termine, più che qualcuno che è venuto prima, è il “prima” che giustifica il dopo, è la scintilla prima da cui si diparte ogni tensione drammatica destinata a farsi racconto, non tanto per noi, ma per chi – sfogliando una ad una le pagine del proprio tempo e del proprio dolore – altro non può fare se non leggere sé stesso e cercare di comprendersi.

La maturità del testo si esprime tutta nell’abolizione (fin dall’inizio) di qualsiasi semplificazione morale: i protagonisti non compiono mai decisioni a cuor leggero ma ciascuno di essi (anche Chaim Grade, probabilmente), combatte contro quella parte di sé che, perennemente sveglia, si chiede se ogni cosa, ogni pensiero, ogni desiderio, sia giusto o sbagliato, legittimo o irregolare. In ciò emerge la loro onestà: innanzitutto come umanità mai facile ma sempre costretta al combattimento della coscienza, a quel crogiuolo inevitabile che trasforma le anime in cristalli. Poco ci importa (me ne sono reso conto già prima di arrivare a metà del libro) come vada a finire la storia; l’anima di questo libro non è nei risultati, negli esiti, ma nei fulcri di libertà che diventano decisivi, e con i quali ciascuno dei lettori può confrontarsi. Sperando così di spezzare, almeno, le proprie catene. Specie quando, tra i tanti precetti che già esistono e che vengono usati male, finiamo per legarci a regole e costrizioni autoimposte dal peggiore tra tutti i sistemi dogmatici: quello che sorge dentro di noi, quando il sistema immunitario del nostro amore non funziona più come dovrebbe. Esistono forse catene peggiori di quelle che ciascuno di noi può incastrare ai propri polsi? E non è forse l’anima di ciascuno di noi una sposa che, prima o poi, è destinata ad essere felice? Mi convinco sempre più che Chaim Grade, in ultima istanza, altro non volesse dirci se non questo.

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