“A che cosa serve la letteratura?” di Isaac Singer è una raccolta di diciannove saggi, a lungo ignorati ma che consentono di non avere una visione parziale del premio Nobel 1978, sulla sua idea di letteratura, ma anche sulla lingua e sulla letteratura yiddish, come pure sulla cultura ebraica in toto. Prese di posizione divisive, le sue, spesso contro le ideologie, la psicologia, la sociologia, in nome dell’arte come narrazione dell’individuale, di ciò che è irripetibilmente diverso
Imbevuto fino al collo di letteratura, figlio di un rabbino, uno dei più grandi maghi di parole di sempre, parole inesauribilmente combinate, Isaac Singer si cimentava talvolta, e quasi sempre con uno pseudonimo, in riflessioni critiche, brani di saggistica, testi scritti per cicli di conferenze, articoli distanti dalle novelle e dai romanzi che gli hanno dato la gloria eterna, pezzi a lungo ignorati nel loro complesso, e che vedono la luce in forma organica, quella che lo stesso autore auspicava ma non era riuscito a portare a termine, nonostante contratti firmati con un editore. Si tratta di un libro speciale, con gocce di autobiografia (da ricordi di infanzia alla sua idea personale di Dio), fiumi di riflessioni sulla cultura e sulla religione ebraica, sull’yiddish, idioma dell’esilio, lingua vilipesa, martoriata, snobbata, quasi distrutta dal nazismo, e oltre che lingua letteratura, in cui Singer ha una fede assoluta («Non datemi del sognatore se dico che la letteratura yiddish, la letteratura degli ebrei, ha il potenziale per fare uscire dalla crisi attuale tutte le letterature»), e oceani di ragionamenti sul senso della scrittura e sul perché della letteratura. Le pagine accomodanti sono zero, prende sempre posizione, ha le sue idee, molte delle quali divisive.
Grazie a Dio, io fui controverso fin dall’inizio, e tale spero di rimanere per sempre.
Profezie
Come spiega acutamente nella nota conclusiva di A che cosa serve la letteratura? (210 pagine, 19 euro) il curatore David Stromberg, questi saggi consentono di non avere una visione parziale sull’opera del premio Nobel che «era uno scrittore, ma anche un intellettuale», ben più colto di quanto lui stesso volesse dare a vedere, o gli fosse riconosciuto. E forse era anche un profeta, che non si sarebbe stupito del mondo nel 2025, impegnato a rincorrere la cosiddetta intelligenza artificiale, a dar retta a un paio di passaggi di uno dei suoi articoli, datato 1963, per il quotidiano yiddish Forverts.
In effetti sarebbe molto più difficile accettare una macchina che componesse testi letterari rispetto a un computer che elabora numeri. Di fronte a una macchina in grado di raccontare storie e scrivere testi teatrali le persone creative non avrebbero più uno scopo. […] La narrativa potrebbe diventare un divertente sport per dilettanti. È già successo per la poesia, che è spesso così contorta e oscura, così astratta e inessenziale, da essersi ridotta a un gergo per quei pochi che credono di possedere la chiave per la soluzione dei suoi enigmi.
In nome del godimento artistico
Questa collezione di diciannove saggi, divisi in tre sezioni, editi in inglese tre anni fa, sono ora disponibili in italiano grazie alla traduzione di Marina Morpurgo, nell’edizione Adelphi a cura di Elisabetta Zevi. E sono colmi di idee sulle quali si fondano le opere maggiori di Isaac Singer; una di quelle che spicca? L’arte come narrazione dell’individuale – in opposizione a ogni scienza, che ricerca costanti, leggi, formule, e anche in opposizione agli eccessi di sperimentalismi, soprattutto linguistici. Se la narrativa intende sopravvivere deve puntare sull’individualità, sull’irripetibile diversità, e su un pubblico che al personaggio e alla sua singolarità sia davvero interessato, su storie uniche, che non ambiscano a essere trattati sociologici o psicologici, trappole, la sociologia e la psicologia, come l’ideologia, che lo tormentano e lo fanno inorridire.
L’oggetto della letteratura è l’individualità, ossia l’unicità e la particolarità insite nella natura umana, nel destino dell’umanità e nelle circostanze in cui gli uomini vivono. […] Se l’arte ha qualcosa da insegnarci è proprio il fatto che «in principio ci fu l’eccezione». […] Il compito degli scrittori in prosa, per dirla in breve è di sorvolare il più rapidamente possibile su ciò che è comune a tutti, e di sottolineare l’elemento che invece è unico. Di fare uso della conoscenza senza diventare pseudoscienziati, sociologi o psicologi da strapazzo, o peggio dei moralisti. […] L’errore più grave che uno scrittore possa fare è presumere che l’epoca del godimento estetico sia finita e che gli artisti possano permettersi di annoiare il pubblico in nome di uno scopo superiore. Non esiste un paradiso che ripaghi i lettori annoiati. Nell’arte, come nel sesso, l’atto e il godimento vanno di pari passo. […] La nostra epoca ha visto l’ascesa di un tipo di scrittore che cela la propria personalità noiosa dietro degli enigmi. Decifrare gli enigmi può risultare piacevole per alcune menti pedanti – ma non offre godimento artistico.
Né predire, né confessarsi, né pavoneggiarsi
Contro i colleghi che ambiscono a essere novelli Marx o novelli Freud, si scaglia Isaac Singer, o contro gli autori di romanzi di guerra che, descrivendo atrocità, si illudono, a suo parere, di contribuire alla pace nel mondo. L’arte prima di tutto come intrattenimento, chiaro e profondo, a partire da corpo e anima, propugna l’autore de La famiglia Moskat, che inorridisce davanti a certe tendenze della letteratura, a cominciare da quella di provare a predire il futuro, e non è in vita adesso, per fare i conti con il dilagare quasi comico di noiosi epigoni della cosiddetta autofiction.
Un gran numero di romanzi moderni è tristemente simile ai racconti di chi è andato in analisi. Questo tipo di romanzo è un miscuglio tra il confessarsi e il pavoneggiarsi.
L’originalità dei veri creatori sta a cuore ad Isaac Singer, che ama su tutti i grandi maestri francesi e russi. E poi Kafka certamente, Joyce pure, ma non certi loro discepoli, o piuttosto presunti discepoli, non i loro trucchi, sotterfugi ed espedienti, non la loro originalità posticcia. Altro punto fermo, per Isaac Singer, è la lotta dello scrittore contro Dio. L’arte metta al bando le ideologie, l’idea che possa essere politicizzata (spesso indica gli scrittori di epoca sovietica fedeli al partito e al realismo socialista, nessuno dei quali è rimasto) o essere al servizio di qualche causa, movimento, partito, pensiero. La battaglia in cui è impegnato, in generale l’artista, e in particolare lo scrittore, non è quella contro l’ordine sociale, ma è quella contro Dio («È impossibile scrivere di esseri umani in modo sincero, se non si ha fede in qualcosa di superiore agli esseri umani»), gli scrittori devono litigare «con i sommi poteri», provando a rispondere a un’unica domanda, quella relativa alla sofferenza nel mondo.
Dio è uno scrittore e noi siamo al tempo stesso i personaggi e i lettori. […] Come l’artista, Dio non sa mai esattamente che cosa farà e come si svilupperà la sua opera. Solo l’intenzione è chiara: produrre un capolavoro e continuare a migliorarlo.
Produrre capolavori, più o meno la stessa missione che s’era dato questo novello Bardo del Novecento. Fluviale, ipnotico, anche soprannaturale, coi suoi fantasmi e dybbuk, con il suo personalissimo Dio in cui credere e a cui contrapporsi.