Leslie T. Chang, in Egitto l’allarme è la questione femminile

Nell’Egitto di oggi il l cambiamento economico e la globalizzazione hanno rafforzato il maschilismo, anziché veicolare una migliore mobilità sociale e promuovere una effettiva emancipazione femminile. Lo racconta, dopo cinque anni di vita in Egitto, Leslie T. Chang in “Egyptian Made”, inchiesta dal forte coinvolgimento emotivo. L’autrice, però, incorre anche in un brutto inciampo…

La condizione femminile è, da sempre e ad ogni latitudine, un’ottima cartina di tornasole per indagare lo stadio evolutivo delle società umane. Qualora foste curiosi di conoscere cosa si nasconde, in particolare, nel backstage dell’Egitto patinato propostoci nei resort all inclusive delle sue gettonatissime mete turistiche o di apprendere come è cambiato il paese – ammesso che qualcosa sia cambiato – dopo i fermenti che, nel 2011, ne hanno scosso le principali piazze, vi suggerisco Egyptian Made (368 pagine, 27 euro) di Leslie T. Chang, pubblicato in Italia da Marietti1820, tradotto da Gianluca Didino.

Una lunga e articolata indagine

Se non nutrite particolare interesse verso tematiche femministe e/o relative al lavoro, potreste essere scoraggiati dal sottotitolo: “Donne, lavoro e promessa di liberazione”. Non fatelo. Derogate, invece, per una volta alle vostre preferenze e fidatevi della sottoscritta. Leslie T. Chang, scrittrice e giornalista americana, attraverso la lunga e articolata attività di indagine sul lavoro femminile nelle fabbriche tessili, ha composto, infatti, un quadro esaustivo della società egiziana, non trascurando di approfondire le radici storiche, culturali e religiose per le quali la rivoluzione di “Piazza Tahrir” ha lasciato il paese in un’impasse forse più grave di quello da cui voleva trarlo fuori.

Chang, con il marito e le sue gemelline, ha trascorso cinque anni nel paese dei faraoni. Una immersione nella realtà locale che le ha consentito di scansionarne ogni aspetto. Durante questo arco temporale, infatti, ha quotidianamente frequentato le fabbriche a prevalente manodopera femminile esplorandone le modalità operative, i rapporti di potere, le dinamiche di interazione tra le operaie e quelle tra maestranze e dirigenza. Ha visitato i villaggi di provenienza delle lavoratrici, ne ha frequentato alcune negli ambienti domestici per avere un’idea di come funzionino le relazioni familiari e di come i condizionamenti dei legami di sangue e coniugali, della religione e delle tradizioni pesino sulle aspirazioni delle giovani generazioni di donne.

Uno Stato disfunzionale

L’Egitto che viene fuori dalle pagine è perfettamente congruente all’immagine definitasi nelle menti di noi italiani a causa della vicenda di Giulio Regeni: uno Stato politicamente e burocraticamente disfunzionale. Una nazione difficile, orgogliosa, drammatica ed estenuante. Un paese in cui il cambiamento economico e la globalizzazione hanno rafforzato il maschilismo della peggior specie, segregando le donne in matrimoni claustrofobici, anziché veicolare una migliore mobilità sociale e una maggiore democrazia attraverso la costruzione di una solida classe media e la promozione di una effettiva emancipazione femminile.
Non posso prevedere le reazioni dei lettori al racconto di Leslie T. Chang. Tuttavia non mi è difficile ipotizzare che condivideranno con me incredulità e indignazione riguardo la trivialità delle condotte antifemminili che continuano ad essere perpetuate nel quotidiano, nella sfera pubblica come in quella privata.

L’illusione e la sfiducia

A Chang va riconosciuto, oltre al merito della accuratezza e della chiarezza, quello di essersi esposta personalmente, comunicando con nitidezza le proprie sensazioni e partecipandole senza filtri. Data la natura delle problematiche che l’inchiesta tocca, è naturale, infatti, anche un forte coinvolgimento emotivo. A tale riguardo, il libro è idealmente divisibile in due blocchi. Il primo è pervaso dall’ottimismo legato alle aspettative di cambiamento che la giornalista spartisce con le imprenditrici delle cui fabbriche è “ospite”. «Dobbiamo fare soldi, ma nel processo vorremmo anche aiutare le donne a diventare più forti all’interno delle loro comunità». Le dice Ian Ross, amministratore delegato della Delta Texile Factory, in uno dei primissimi incontri. Pian piano, però, l’atmosfera del racconto si incupisce. Più diventa intima la conoscenza delle lavoratrici più avanza lo scetticismo, fino a cedere definitivamente il passo, nella parte conclusiva di Egyptian Made, ad una esplicita e inesorabile sfiducia.

«In cinque anni di vita in Egitto, sono arrivata a considerare la posizione diseguale della donne, e tutto ciò che ne deriva, come il problema più urgente del paese». Nella consapevolezza che «molti dei mali della società egiziana, però, sono radicati in comportamenti personali appresi in famiglia. Per sradicarli sarà necessario un altro tipo di lavoro: mettere in discussione l’educazione ricevuta e accettare di sostenere conversazioni scomode con le persone più care. E sopprimere l’istinto di incolpare gli estranei per i loro problemi: in Egitto, la maggior parte dei problemi sono Egyptian Made».

Ma le lavoratrici non siano imputate…

Mi sarebbe piaciuto finire il mio contributo con questa citazione che esprime concetti pacificamente condivisibili.
Preferisco, invece, – si perdoni la pedanteria – esternare il dubbio rispetto alle conclusioni tratte altrove da Chang.
Un tempo – dice Riham, l’imprenditrice con la cui testimonianza termina “Egyptian Made”, «cercavo di creare un ambiente in cui le mie dipendenti si sentissero al sicuro, tranquille e certe dei loro stipendi. Ma ho scoperto che è meglio farle sentire come se ogni giorno fosse un giorno di prova».
Considero un brutto inciampo enucleare due fronti in cui si contrappongono lavoratrici e imprenditrici.
Uterine, isteriche, irrimediabilmente e inesorabilmente batterio patogeno le prime. Donchisciottesche, nel loro istinto di far sopravvivere le attività produttive, le seconde, giustificate per la scelta, null’affatto velleitaria, di irrigidirsi in risposta ai capricci manipolativi e allo “strapotere” contrattuale delle operaie. La retrocessione di Chang dalle iniziali posizioni favorevoli alle lavoratrici verso l’arroccamento in difesa delle capitane d’azienda, mi amareggia. Al di là delle idee personali sulle logiche capitalistiche in materia di lavoro, portando il discorso su un piano sociologico, mettere le dipendenti sul banco degli imputati mi suona come una censurabile vittimizzazione secondaria. Che le condotte messe in atto in fabbrica (che creano caos e ritardano o compromettono i tempi di produzione) replichino il modus agendi a cui le donne sono addestrate fin da bambine dalla cultura patriarcale è un dato di fatto sottolineato – come abbiamo visto – anche da Chang. La passività a cui le ragazze sono votate fa indubbiamente rabbia a tutti. Ma gravarle del peso morale della marginalizzazione sociale a cui si sono auto confinate, fa altrettanta tristezza. Non ho una ricetta per invertire la deriva maschilista e tirarle fuori dal pozzo. Dico solo che chiudere il dialogo e agire secondo modelli di gestione del potere di tipo punitivo e sciovinista non mi pare vada nella direzione più idonea alla risoluzione del problema.

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