Una mente pensante che ci invita e ci sfida a fare i conti con la vita, con le sue scissioni e sofferenze, l’unico modo per alimentare la nostra tentazione di esistere. Non è un nichilista Emile Cioran – nato l’8 aprile 1911 – piuttosto un filosofo anti-moderno, scomodo, corrosivo e ironico. Ne “La tentazione di esistere” ragiona sull’impossibilità e vacuità di un pensiero salvifico spirituale per l’uomo, lasciando il campo all’immanenza, fra costrizione terrena e volontà di annientamento, di fuga e annullamento…
Varrebbe sempre la pena leggere (o rileggere) Emil Cioran, anzi converrebbe proprio avere sempre un suo libro a portata di mano in caso di necessità, ve ne sono molti fortunatamente (praticamente tutti nel catalogo Adelphi) di quelli che il saggista, filosofo, scrittore rumeno (difficile catalogarlo sotto una qualsiasi e definitiva etichetta di intellettuale) ci ha lasciato, e sfogliarne anche solo poche pagine per volta, a piccole dosi, in questo avvantaggiati dalla sua perlopiù utilizzata forma aforistica, potrebbe avere anche una qualche funzione “terapeutica”, quella che lo stesso Cioran attribuiva al suo fare letteratura, semplicemente di pulizia intellettuale, a dispetto, o forse proprio per effetto della loro corrosività e potenza euristica, quasi “socratica”, interrogandoci e interrogandosi con i contenuti di quelli stessi scritti sui fondamenti dei suoi assunti letterari e filosofici. Servirebbe farlo per smitizzare le nostre certezze e i nostri dubbi, e l’idea stessa della vita, per “imparare a pensare contro i nostri dubbi e contro le nostre certezze” (da La tentazione di esistere). Farlo magari proprio a partire dal volume del 1956 (La tentazione di esistere, Adelphi 1984, 215 pagine, 12 euro) dell’autore nato l’8 aprile del 1911 a Răşinari, un piccolo borgo rurale della Transilvania della periferica rispetto alla grande e convulsa Europa, Romania, successivamente esule e apolide per propria scelta in quella Parigi che lo adotterà a partire dal 1941, a seguito della fuga dal suo paese di nascita alla vigilia del secondo conflitto mondiale, un’adozione che seppure da apolide (status civile quanto mai significativo nel suo caso, e che manterrà per tutta la vita) è anche linguistica. A partire dal 1949, con una delle sue opere più significative, il suo Sommario di decomposizione, inizierà a scrivere in francese, con una conoscenza del nuovo idioma che ne farà uno dei maggiori prosatori in quella lingua padroneggiata con una finezza assoluta e che gli permetterà di intraprendere le sue “sfide al mondo” e iperboliche, taglienti e impietose folgorazioni denunciando la pericolosità di ogni conformismo.
Il suo “nichilismo”
La tentazione di esistere rappresenta all’interno dell’opera più che quarantennale di Cioran forse la sua prova più matura e argomentata, il suo libro più autenticamente filosofico e la sua più compiuta lezione di perplessità, la summa di un pensiero tanto sfaccettato quanto abissale, aporetico e diremmo nichilista, dovendo però tratteggiarne al meglio le implicazioni di questo suo “nichilismo”, che si distingue da quello comunemente interpretato nella filosofia e nelle arti per come è stato catalogato e storicizzato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Un pensiero che dilaga come un vortice tenebroso in un insieme di forme di scrittura che hanno nella frammentarietà, nell’aforisma, nell’illuminazione quasi ditirambica il suo tratto più distintivo, celebri in tali forme i suoi Sillogismi sull’amarezza, L’inconveniente di essere nati, per non parlare degli scritti ritrovati successivamente alla sua morte e ora raccolti da Adelphi nel volume La finestra sul Nulla.
Padri e maestri ripudiati
Si tratta invece nel caso di La tentazione di esistere di undici capitoli, saggi, interventi, varie divagazioni sull’esistenza e sul destino dell’occidente, speculazioni filosofiche di vario grado, definiamole come vogliamo (e non è facile farlo), sempre in bilico con l’ossessivo dialogo con sé stesso e il pensare contro sé stessi (dal titolo e dai contenuti del primo brano del volume del quale si prova a parlare), in un pensatore del tutto asistematico e che di questo non sistema della sua filosofia ha saputo fare un sistema. Aporie e contraddizioni tipicamente cioraniane di un pensiero che tesse l’elogio della “virtù dello squilibrio”, di sapore nietzscheano ma senza le tendenze superomistiche del filosofo tedesco, quanto quelle più schopenaueriane e debitrici alla spiritualità orientale, il costante richiamo a Lao-Tzu e alla dottrina del Tao come anche spesso ricorre nel volume ne sono la testimonianza. Un’origine speculativa che in Cioran prende le mosse dal pensiero di Henri Bergson, uno dei suoi padri putativi, per poi ripudiarlo e distaccarsene per il troppo smaccato “progressismo”, stessa cosa che avverrà con l’esistenzialismo francese dei vari Sartre e Camus, ancora secondo il nostro troppo legati all’Essere, come allo stesso modo accade con i padri putativi intellettuali della sua formazione quali il grande filosofo Heidegger, altrettanto ripudiato per il suo ermetismo, insomma uno che ha fatto del ripudio il senso proprio e primario di quello scetticismo già di origine greca che è alla base di ogni sfida della conoscenza e che unito a un distacco epicureo e a una costante ricerca di solitudine, primaria fonte di ogni meditazione, dà a un animo affranto da un pessimismo di fondo quale il suo l’occasione per le spericolate speculazioni di un autore che nelle sue opere è riuscito a dare fuoco a tutte le convenzioni logiche e morali più consolidate.
L’infatuazione giovanile
Figura di intellettuale sicuramente controversa quella di Cioran, filosoficamente anti-moderno, pascaliano e tragico nel senso greco del termine con l’involucro del pessimismo esistenzialista novecentesco, altamente corrosivo e ironico nelle sue folgorazioni che non rinunciano mai al gusto del paradosso, dell’interrogazione, della sfida e della provocazione all’intelligenza e alla vacuità umana, scomodo, spiazzante e spiacevole anche per le sue “simpatie” (definiamole così) politiche giovanili, in un’epoca del resto attraversata dalla grande follia delle ideologie che hanno segnato il secolo scorso con le quali Cioran si è variabilmente e inevitabilmente trovato a fare i conti essendovisi in parte anche compromesso, ma che dall’altezza della sua statura intellettuale ha saputo mantenerne una distanza critica a costo di ritrattazioni, stupori e abdicazioni che non hanno niente di opportunistico: la sua esperienza nella Romania filonazista poco prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, precedente al suo esilio parigino, esperienze forse solo catalogabili come infatuazioni e perversioni giovanili che lo porteranno come molti suoi omologhi anche in campo intellettuale in quegli anni tragici a simpatizzare per un’ideologia distruttiva e mortifera, questa è la sua esperienza di vicinanza intellettuale e in parte ideologica con poeti legati all’estrema destra del tempo quali Petre Tutev, subendo il fascino di quel vitalismo e misticismo che è il sottofondo culturale dell’ideologia nazista, e con la sua vicinanza seppure ben presto ritrattata con i legionari della Guardia di Ferro, il movimento e partito politico filofascista guidato da Corneliu Zelea Codreanu, il leader ultranazionalista e antisemita al quale Cioran non mancherà di dedicare un elogio funebre. È questo il periodo della sua “infatuazione giovanile” che culminerà in uno dei suoi primi scritti, quando ancora adottava la sua lingua nativa, e cioè Trasfigurazione della Romania, opera emendata e rinnegata pochi anni dopo, tanto da portarlo a dire: “ A volte mi domando se sia stato proprio io a scriverlo…l’entusiasmo è una forma di delirio”, e ancora “Come ho potuto essere quello che sono stato?”, per certi versi lo stesso concetto espresso in La tentazione di esistere ove riesce a collocare una sua presa di coscienza della vacuità su qualsiasi forma di presa sul mondo: “Ricordo, come sul finire dell’adolescenza, immerso nel funereo, vassallo di un unico pensiero, entrai al servizio di tutte le forze che lo smentivano”. Un po’ l’adesione a quello scetticismo e relativismo gnoseologico che è la caratteristica che più si fa amare nella scrittura di Cioran, le cui simpatie giovanili certo non avrebbero potuto essere un onorevole biglietto da visita per un pensatore e uno scrittore che oggi riconosciamo universale. La sua ritrattazione non è banalmente politica ma convintamente ideologica e esistenziale. Da ricordare in ogni caso proprio in La tentazione di esistere il bellissimo capitolo dal titolo Un popolo di solitari, centrato sul popolo ebraico, da lui definito “fratello nel dolore”, un ritratto che ripercorrendo la storia del popolo più perseguitato della storia e tratteggiandone alcuni stereotipi che a ciò hanno contribuito, ne evidenzia la peculiare unicità di popolo del destino, che ha assunto su di sé il compito di una trascendenza mondana e che proprio per la altrui visione in loro di un ideale incarnato ne ha attratto l’odio, una vocazione e costante tensione spirituale degli ebrei, ci dice Cioran, che tuttavia si scontra con il Muro del Pianto.
Scegliere tra l’Essere e il Nulla
La scelta, perché di scelta si tratta, al pari di quelle dei grandi pensatori e moralisti, poiché Cioran è anche un grande moralista al pari di Pascal e Saint-Simon da lui frequentati e spesso citati nelle sue opere, finanche ai mistici, questi ultimi del resto per molti versi intellettualmente sbeffeggiati da Cioran, è tra l’Essere e il Nulla. Il Nulla e la sua tentazione, ci dice Cioran, alla stessa stregua dell’Essere, è uno dei conformismi sui quali riflettere, e da fuggire, anche se il nulla ci dice che non c’è nessuna via d’uscita per colui che oltrepassa il tempo, Cronos che divora i suoi figli con un senso di vertigine al quale aggrapparsi al culmine di una disperazione (senza tempo) che inghiotte tutto. Forse tali vertiginosi pensieri possono scaturire solo da una mente afflitta come nel caso di Cioran da una grave forma di insonnia che lo ha colpito fino dai suoi anni giovanili o forse anche in tale caso si confondono le cause con gli effetti. In qualunque modo sia tali temi appaiono in La tentazione di esistere, come in diversi gradienti e forme in tutte le sue altre opere, in questo caso in modo dirompente già dal capitolo che apre il volume, quel “pensare contro se stessi” che lo porta a dichiarazioni che sviliscono l’Essere, in tutte le sue occorrenze ontologiche e sociali, e l’esistente in un modo tanto tragico, cinico, scettico e spregiudicato da non potervi non scorgere quel tratto di ironia che è l’istinto primario e lo scopo delle sue interrogazioni e provocazioni: “portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare”. Siamo certamente nei territori più radicalmente esistenzialisti e/o nichilisti (volendo necessariamente catalogare una forma speculativa inclassificabile), siamo al Kierekegaard di Enten-Eller e dell’esistenzialismo, alla costante e irrisolta tensione metafisica dell’individuo, qui e concretamente dato, il quale nell’impossibilità e riconosciuta vacuità di un pensiero salvifico di tipo spirituale in Cioran lascia il campo all’immanenza, all’immersione introiettiva nel vuoto del Tao, un Aut-Aut indecidibile, fra costrizione terrena e volontà di annientamento, di fuga e annullamento, o per dirla con Schopenauer tra mondo della rappresentazione e volontà, o in modo kantiano, dal quale la riflessione filosofica di Schopenauer del resto deriva, tra fenomeno e noumeno. In Cioran non c’è superamento, in lui Nietzsche del superuomo diventa quello dell’annientamento, dell’abbandono, illuminante in tal senso un breve brano contenuto in La tentazione di esistere su un mendicante: “Lui almeno non mente, né mente a se stesso: la sua dottrina, se ne ha una, egli la incarna; il lavoro, non lo ama e lo dimostra…manca di tutto, egli è se stesso, egli dura: vivere immediatamente l’eternità significa vivere giorno per giorno”. Un elogio del rifiuto della vita, dell’esistente, radicalmente anti-moderno, da parte del “filosofo urlatore” (dai Quaderni), nichilista, certo, pessimista, pure, leopardiano, anche, del poeta recanatese vagamente frequentato da Cioran che lo stesso definirà “fratello d’elezione”. Un’estetica del negativo che lo porterà a inevitabili ma del tutto originali e paradossali riflessioni sul suicidio che in quanto rivolta verso un’esistenza invivibile acquisterà in Cioran il valore di massima espressione della libertà umana, e che lungi dal costituire una volontà di annientamento e paradossale via d’uscita alla sofferenza, nella riflessione che ne fa diventa, anche con il solo pensiero della sua possibile attuazione, il sapersi libero dell’individuo. Riflessioni, quelle sul suicidio, sull’invivibilità della vita e sulla sua tragicità, vale ricordarlo, fatte da un uomo che se ne andrà per cause naturali alla veneranda età di 84 anni in quella Parigi che lo ha adottato. La stessa logica seguono le sue riflessioni sul misticismo, alle quali sono dedicati ampi spazi nel volume di riferimento, l’eterno conflitto tra materia e spirito, volontà di rivolta e rassegnazione, la scissione dell’essere umano sempre teso tra le spinte centripete materiche del cosiddetto essere in-autentico heideggeriano e quelle metafisico-religiose della trascendenza, l’Essere metafisico al quale Cioran riconosce lo stesso fondamento illusorio del Nulla, al quale pure sembra ergere i suoi altari. Non il Nulla vivificante e orgiastico dei romantici ma quello del Tao, quello più autentico in senso heideggeriano che si esprime nell’essere-per-la-morte come destino più proprio dell’individuo. La riflessione di Cioran sull’Essere in effetti rispecchia quella dell’esser-ci propria di Heidegger, il filosofo tedesco poi ripudiato da Cioran. Vengono in mente alcuni passi da Il processo di Franz Kafka, il celebre romanzo del grande praghese nel quale si dice: “La vita lungi dall’essere l’insieme delle funzioni che resistono alla morte, è piuttosto l’insieme delle funzioni che ci trascinano ad essa”. È proprio l’esserci, e la sua dimensione autentica che è l’essere-per-la-morte di cui ha parlato Heidegger. Ancora da Il Processo di Kafka in tal senso illuminante è nel capitolo del Duomo che narra il dialogo tra il sacerdote e Joseph K., ove il primo dice: “La sentenza non arriva d’un tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza” e ancora dallo stesso dal racconto del Guardiano della legge: “Qui nessun altro poteva ottenere di esservi ammesso, perché questa entrata era destinata solo a te, adesso vado a chiuderla”, espressione massima dello smacco e dell’inganno di una vita in Joseph K. che trasposta nella riflessione di Cioran mostra come la salvezza o la dannazione sia sempre individuale e trovi in lui e nella critica radicale del vivente concreta espressione negli esiti della nostra cosiddetta “civiltà occidentale”. Ne La tentazione di esistere Cioran dedica ampio spazio alle riflessioni Su una civiltà esausta (dal titolo di uno dei capitoli), riflessioni dagli echi spengleriani di “Il tramonto dell’occidente”. Cioran nella sua critica del moderno e sui destini dei popoli, preconizzando l’incerto futuro dell’Europa, echeggia mitizzandola un’epoca tragica, quella degli antichi, degli elisabettiani, arrivando fino al Rinascimento, punto limite delle epoche nelle quali secondo lui lo stile si ergeva a baluardo contro il decadimento in essere, decadenza che si esprime nel concetto di “civilizzazione” come espresso dall’altro filosofo tedesco Karl Löwith, critico dello storicismo e noi diremmo dell’illusione del progresso, dell’Essere nel senso più ampio, un dovere e non riuscire più a fare i conti della civiltà come del singolo individuo in modo autentico con il proprio destino, quell’essere-per-la-morte, “il far salire dentro di sé la nota della morte” perché “siamo la morte, tutto è la morte, i secoli non l’hanno consumata” (da La tentazione di esistere). Un pensiero abissale, radicale, contraddittorio nella sua essenza e che arriva agli esiti aporetici e paradossali dell’auspicare un’epoca senza letteratura come espresso nel volume nell’immaginaria lettera scritta a un autore (Lettera su alcune impasses) con l’elogio di “chi indietreggia in nome dei suoi talenti” e che fa il pari con la visione cinica e disincantata che ha sul ruolo dell’intellettuale, “l’intellettuale stanco” come lo definisce Cioran o “il becchino dell’intelletto”, il quale si pasce delle catene dell’illusione e “si getterà a capofitto in qualsiasi mitologia che gli assicuri la protezione e la pace del giogo”.
L’estetica del negativo
Pensare è negare il pensiero stesso come fonte di salvezza ci dice Cioran. L’estetica del negativo, la scelta tra l’essere e il nulla, aporia fondante di tutto il suo pensiero “negativo”, ci dice che davvero lo scetticismo è il fondamento di ogni conoscenza, contro ogni dogmatismo, dalle altezze vertiginose di riflessioni che rinnegano sé stesse “Pensieri che sdegnano di essere pensieri” (da Pietro Citati nella quarta di copertina del volume Adelphi), contro ogni presunta velleità di certezza predefinita e sistemica, negandosi a ogni sua classificazione o astrazione, erigendosi dalle vette di uno stile inconfondibile e di una bellezza abissale a disegnare “una città irreale della mente” “una musica lieta, sfavillante e demoniaca dello spirito” (sempre Citati) e riassumono e esprimono al meglio in uno dei pensatori più dirimenti e controversi del Novecento lo spirito delle tragedie che ne hanno segnato la storia, costituendo con le sue spericolate acrobazie dell’intelletto allo stesso tempo un elogio delle immense possibilità del pensiero umano. Non un nichilista, come banalmente potrebbe essere liquidato, tutt’altro, una mente pensante che con il suo scetticismo di sapore antico ci invita e ci sfida con le sue opere a fare i conti con le nostre stesse facoltà, con l’esistenza, con le sue scissioni e le sue sofferenze, che sembrano essere l’unico modo per alimentare la nostra tentazione di esistere.
Seguici su Instagram, Telegram, WhatsApp, Threads, YouTube Facebook e X. Grazie